Le città nascondono molto di più di quello che si possa pensare. Al giorno d’oggi è una dinamica che si è un po’ persa, ma in passato, andando indietro anche di alcuni secoli, i nomi delle strade, delle vie, delle piazze e dei corsi non venivano dati sostanzialmente a caso, ma indicavano direttamente le caratteristiche di un luogo, gli elementi di una città. I nomi erano parte integrante della città, avevano uno stretto legame con essa e ne raccontavano la storia, le tradizioni e la quotidianità. Per questo è importante studiare la “toponomastica”, quella disciplina che si interessa dell’origine dei nomi (dei luoghi, delle città, dei fiumi, ecc.), perché i toponimi raccontano sempre qualcosa del passato. Ed è proprio ciò che ha fatto Oreste Delucca, importante studioso riminese che da 50 anni è impegnato nella ricerca delle fonti d’archivio per documentare l’ambiente, l’economia, le strutture sociali e il patrimonio culturale di Rimini e di tutto il nostro territorio. Un lavoro che, recentemente, è sfociato in un libro dedicato proprio allo studio dei nomi: Toponomastica riminese (Luisè Editore, 2019), grazie al quale è possibile non solo scoprire le origini dei toponimi della nostra città, ma anche tanti episodi e storie nascoste scomparse dalla memoria. Riportiamo di seguito due estratti del libro, per raccontare due aneddoti relativi al cuore della città di Rimini, tanto curiosi quanto, probabilmente, sconosciuti ai più.
La via delle Tavernelle e la “Pietra Oziosa”
“Questa viuzza (oggi Via Carlo Pisacane), situata di fianco alla pescheria, con avvio dalla piazza, si chiamava via publica vocata Via da le Tavernelle, strata Tabernelle, strata Tabernellarum. Con tanta gente che si incontrava nei paraggi e si fermava a chiacchierare, a discutere, a contrattare, quale logica conseguenza era abbastanza scontato che lo facesse davanti a un bicchiere di vino, la bevanda sovrana del momento. […] Si trattava di locali angusti, che raramente offrivano alloggio, limitando la loro funzione alla mescita del vino a coloro che si davano appuntamento per sbrigare affari, o si incontravano casualmente, o ne facevano punto abituale di ritrovo per conversare e passar tempo. […] Nel Medioevo era di moda bighellonare proprio lì vicino, nel tratto compreso fra la Pescheria e la Strada Maestra (cioè il Corso d’Augusto). Qui, sulla cantonata, nel muro soprastante un sedile di pietra, era stata posta una lapide fin dagli anni 810-816 (quindi 1.200 anni fa!) detta PIETRA OZIOSA (foto piccola), con evidente disprezzo per gli sfaccendati che vi si davano convegno. Questa lapide, col nome di PIETRA DEI MALDICENTI, era stata rifatta nel 1397 da un certo Giacomo, che evidentemente non ne poteva più delle chiacchiere e delle maldicenze. Tale lapide, scritta in un curioso gergo volgare, costituiva un interessantissimo reperto archeologico cittadino. Purtroppo è scomparsa, rubata nel dopoguerra dai depositi del Museo. È una storia triste, caratterizzata da ritardi nella denuncia e da un procedimento giudiziario mai giunto a conclusione. […] Ecco il testo: MCCC.LXXXXVII. ADI XIII D’AGOSTO. CHRISTO ATTA IACOMO. CHI IN QUESTO TREBO CUM TALE E QUALE PATIENTIA E FORTEZA AVERA VIRTUDE ET DACOMENDARAI SERAE NOTA ETAXIE SE VOI VIVERE IN PACE CHEL BEN PURE
SE TA UE EL MALE PURE SE DICE A BONO INTENDIDORE ET ECETERA”.
La “Pietra dei Falliti”
“Il punto dove l’odierna Via Sigismondo (anticamente Via per S. Giovanni Evangelista o Via per S. Agostino) sfocia in Piazza della Fontana, nel Medioevo aveva forma di Trivio perché vi confluivano anche le stradine contigue ad alcune casette che sorgevano nel sito dell’attuale Teatro e separavano Piazza della Fontana da Piazza Malatesta (un tempo denominata Piazza del Corso, come si ricorderà). […] Nonostante la trasformazione, quel punto ha continuato a chiamarsi trivio e, per l’esattezza, ‘Trivio dei Notai’, Trivium Notariorum, perché ospitava le bottegucce dei notai riminesi. Bisogna sempre ricordare che i notai del Medioevo erano molto diversi da quelli odierni: in un certo senso erano i segretari di tutti e pertanto costituivano uno dei mestieri più numerosi. Dato l’elevato analfabetismo, la gente si rivolgeva a loro anche per effettuare scritture e gestire negoziazioni di modesta importanza. […] Nelle vicinanze, sempre sulla piazza, in prossimità del palazzo pubblico, si trovava un’altra struttura caratteristica, la cosiddetta ‘pietra dei falliti’. Gli statuti medievali stabilivano infatti che il debitore insolvente (cioè il fallito), per non danneggiare i creditori vendendo furtivamente i propri beni, li poteva cedere solamente in forma pubblica e secondo una specifica procedura. Doveva innanzitutto riconoscere di fronte agli ufficiali del comune i suoi debiti e fare l’elenco dei beni posseduti. A quel punto gli ufficiali, avvertiti i vari creditori, facevano spogliare il debitore e, al suono delle trombe, lo dovevano condurre al detto pietrone (lapis magnum) posto sulla piazza della Fontana vicino al palazzo comunale. Qui lo ponevano ‘a culo nudo’ sul pietrone per tre volte, facendogli gridare: cedo bonis, cedo bonis, cedo bonis. Quindi i creditori venivano messi in possesso delle sue proprietà. Questo procedimento era piuttosto comune e in alcune città italiane (come ad esempio Modena) si è conservato anche il relativo pietrone. La consuetudine è durata piuttosto a lungo nel tempo, al punto che i nostri anziani, memori delle costumanze passate, volendo indicare una persona fallita, erano ancora soliti dire l’à batù e cùl!”.