Che cosa rimane delle nostre storie? Quando nel 2000 morì mio nonno, soldato sul fronte russo della Seconda guerra mondiale, oltre che padre di mia madre, delle sue vicende rimanesero solo i miei appunti su un quaderno. Il 5 maggio del 2011 uscì sui giornali la notizia della morte di Claude Choles, l’ultimo superstite della Prima guerra mondiale – particolarmente longevo. Ei fu, si potrebbe dire. Facendo un po’ di filosofia mentale viene da chiedersi: è esistito davvero quell’evento di cui nessun partecipante è rimasto in vita?
La domanda è meno assurda di quanto possa sembrare, dato che se c’è una cosa che la storia insegna, è che la storia stessa viene dimenticata in fretta.
Lo scorso 2 ottobre – non a caso, la giornata in cui si celebra la festa dei nonni – sono stati festeggiati i primi cinque anni di Memoro – la banca della memoria, un portale web (www.memoro.org) realizzato in Italia che raccoglie oltre 12mila video di testimonianze. Il concetto è semplice: basta una telecamera, od uno smartphone, una persona che abbia voglia di raccontare la propria storia, e si può realizzare un video che poi sarà pubblicato sul portale. Nato a Torino, in poco tempo il progetto ha svalicato le Alpi, e adesso le storie presenti sul sito provengono da tutto il mondo. Gli utenti, immortalano i racconti dei propri nonni e dei propri anziani, e hanno creato una banca dati con oltre 95 anni di storia, dato che i primi testimoni sono nati nel 1891. Quattordici paesi di provenienza, 4 continenti, anche se la maggior parte dei video (oltre 7mila) proviene dall’Italia.
Ascoltando i racconti si scopre non solo la voglia di parlare e di comunicare la propria storia, ma anche quanto sia cambiato il mondo. Ed è sintomatico che a registrare queste mutazioni sia proprio uno strumento – il video, il web – che ha portato le più grandi rivoluzioni. I membri delle ultime generazioni si sentono sempre dire che un tempo i racconti si facevano la sera in casa attorno al fuoco. Oggi non è più così. Oggi ci si appoggia ad altri mezzi. Nel bene e nel male, però, la storia continua.
Ma è impressionante sentire e capire come siano mutati gli aspetti più importanti della vita, non solo quelli tecnologici, come quando Emilio Podeschi, oggi titolare dell’azienda agricola “Il Giuggiolo” di San Martino dei Mulini, e noto “costruttore” di giochi d’antan, racconta: “Un tempo le nostre erano famiglie numerose. Dodici, tredici figli, senza contare quelli dei fratelli che vivevano insieme. Mia mamma ne ha avuti 12, siamo sopravvissuti in 8. Le donne lavoravano anche incinte, e spesso questo causava degli aborti. Ma il vero lutto era quando moriva la mucca da lavoro: che arava il terreno, dava il latte per i bambini, dava i vitelli, dava l’erpice, portava a casa il fieno, il grano: era una disgrazia”.
Ci sono anche racconti divertenti, che è un piacere ascoltare, come quando ci si ritrova assieme a condividere le esperienze. Tino Sartini, di Maiolo, racconta di un medico, tale Gatti, che aiutava le donne a partorire, ed era molto bravo. “Quando una donna non puteva far quel burdel, lui era una bestia, li salvava tutti. È andato a Lebiano, un paese vicino. Solo lui aveva la motocicletta e poteva arrivare lassù. Pioveva, ed era tutto bagnato”. Morale della favola: nonostante le difficoltà, il medico riuscì a far partorire la donna, ma il fuoco nel camino era spento, e il dottore non potè nemmeno asciugarsi. Prima di andare via, andò dal marito della partoriente e gli disse: “Non metterla incinta più che io non vengo più quassù a cavare i burdel”. Oggi siamo sommersi dalla poetica dei piccoli, dei pargoli, della meraviglia della nascita. Un tempo era un affare come un altro. Importante, sì, ma forse un po’ più prosaico. I figli si facevano, e nascevano. Punto.
Uscendo dai confini della provincia, il sito regala anche approfondimenti legati a temi particolari, come il rastrellamento del Ghetto di Roma, il cui anniversario è caduto lo scorso 16 ottobre. Sono tante le testimonianze, lunghe, vivide, dolorose, degli sfollamenti, del modo in cui le persone venivano caricate su camion coperti da teloni e portate via, senza una parola, senza una spiegazione. Dimenticare queste storie sarebbe una colpa grave, gravissima, perché scorderemmo come è facile scivolare nella barbarie da un momento all’altro, e come è proprio la parola, il racconto, la condivisione che crea civiltà ed argina le peggiori derive dell’animo umano.
Stefano Rossini