A Roma con il capolavoro verdiano Simon Boccanegra si è inaugurata la stagione del Teatro dell’Opera
ROMA, 3 dicembre 2024 – Forse in nessun’altra opera di Verdi si percepisce la dolorosa solitudine del potere come in Simon Boccanegra. Quella di un uomo che non l’ha ereditato per censo né ha fatto nulla per conquistarlo: uno che, anzi, aspirerebbe forse alla tranquillità. Titolo inaugurale dell’Opera di Roma, il potentissimo affresco disegnato dal libretto di Piave, cui però rimise mano Boito nella seconda stesura (quella solitamente eseguita oggi), è un dramma che si staglia a forti tinte, grazie a una musica capace di dar forma all’odio feroce che serpeggia tra i rappresentanti di fazioni politiche avverse. Sullo sfondo, il popolo: vittima, spesso impotente, di chi lo governa.
La vicenda di questo ‘melodramma in un prologo e tre atti’, ambientata a Genova nel XIV secolo, viene trasferita dal regista inglese Richard Jones in una generica e stilizzata modernità, grazie anche alle scene e ai costumi di Antony McDonald: una piazza metafisica che, illuminata dalle sapienti luci di Adam Silverman, esibisce una suggestiva eleganza. La scelta della contemporaneità sembra suggerire come i rapporti di potere tra politici e popolo non siano poi molto cambiati nel tempo; dunque per questo la regia dissemina – nel corso dello spettacolo – tracce che riconducono alla stagione fascista, epoca in cui tali dinamiche appaiono ancor più plausibili. Al di là del sottotesto politico, e al netto di un eccessivo didascalismo, i sentimenti che agitano i protagonisti appaiono comunque in tutta la loro potenza, talvolta persino esaltati da trovate d’intensa poesia (veloci flash che riportano di continuo l’attenzione sulle lacerazioni che agitano il loro animo).
Il fascino di Simon Boccanegra, si sa, risiede principalmente nella musica. Sempre molto attento a non coprire i cantanti, Michele Mariotti – direttore stabile del teatro romano – ha innanzi tutto ben dosato l’equilibrio tra buca e palcoscenico. Dagli strumentisti del Teatro dell’Opera, poi, ha saputo trarre sonorità sempre suadenti e levigate, spesso in grado di evocare la presenza del mare (in fondo il vero protagonista dell’opera) attraverso sonorità liquide. Meno presente, invece, il senso di morte che permea il secondo atto dove si compie la tragedia di Simone.
Protagonista Luca Salsi, peraltro apparso non in perfetta forma fisica (dopo la première ha infatti cancellato una replica), manifestatasi in qualche problema di emissione. Nel secondo e terzo e atto riesce comunque a disegnare tutta la tragica grandiosità del Doge genovese e il tormento che lo attanaglia. L’altro baritono, l’incisivo cantante armeno Gevorg Hakobyan, ha interpretato con notevole sicurezza e determinazione il malvagio Paolo Albiani. Fin dalla mirabile aria di sortita A te l’estremo addio, il basso Michele Pertusi ha saputo imprimere nobili accenti al patrizio Jacopo Fiesco, attraverso un canto dove si percepisce davvero il significato di quella ‘parola scenica’ auspicata da Verdi.
In una vicenda che appare popolata da soli uomini svetta, come unica presenza femminile, una magnifica Eleonora Buratto (è Maria, la figlia ritrovata del protagonista): per l’eleganza della linea di canto, la pertinenza dell’accento e la duttilità del fraseggio, con cui delinea una donna coraggiosa e, al tempo stesso, volitiva. Il tenore rumeno Stefan Pop, nei panni del suo innamorato Gabriele Adorno, ha mostrato più di un problema di stabilità di suono, evidente soprattutto nella sua infuocata aria del secondo atto. Nel ruolo minore di Pietro si è distinto il basso Luciano Leoni, e nella piccola parte del capitano dei balestrieri ha ben figurato il tenore Michael Alfonsi. Ben preparato da Ciro Visco, il coro del Teatro dell’Opera – cui talvolta la regia fa compiere movimenti tutto sommato inutili – ha assolto in modo efficace al proprio compito, come era auspicabile visto il ruolo coprotagonistico assegnatogli da Verdi. Si è anche dimostrato particolarmente versatile scenicamente, soprattutto nella componente maschile, dovendo passare dagli abiti dimessi dei camalli ad austere toghe nere con gorgiera durante l’atto del Consiglio.
Un’esecuzione comunque appagante: la vicenda di questo eroe per caso – più che per scelta – non finisce mai di avvincere. E, soprattutto, di fornire una chiave di lettura valida anche per interpretare l’oggi.
Giulia Vannoni