“La criminalità organizzata di stampo mafioso in Romagna e in particolare a Rimini è una presenza che riesce a passare inosservata, non del tutto ma quasi. Si vedono solo le orme, ovvero i cosiddetti reati spia, segnali evidenti della sua familiarità col territorio. C’è più mafia di quella che è stata trovata fino ad oggi”.
Lo aveva detto esattamente un anno fa la presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, in visita a Rimini e presso la Repubblica di San Marino, e il monito è stato ribadito da Franco La Torre, figura di spicco del movimento antimafia, da anni impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata, e figlio di Pio, sindacalista e uomo politico ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile 1982 per aver proposto la legge che introduceva il reato di associazione mafiosa, entrato a far parte del Codice penale con l’articolo 416-bis.
Presentando la riforma del nuovo codice antimafia presso la biblioteca comunale di Santarcangelo di Romagna nella serata di venerdì 2 febbraio, La Torre si è rivolto direttamente alle istituzioni romagnole: “In Emilia-Romagna – ha detto – la gente non denuncia e sa. Oggi in questa terra avviene ciò che anni fa, fino alle stragi degli anni ’90, accadeva in Sicilia. Tutti allora ci puntavano contro il dito e ora il popolo siciliano vive la sua stagione di riscatto. I romagnoli assomigliano molto ai siciliani di 20/30 anni fa. Non fa piacere prendere coscienza di avere una malattia, non è piacevole parlarne, ma i bravi medici ci dicono che le malattie vanno affrontate a viso aperto, perché non avere il coraggio di parlarne ci rende più fragili. Avete un patrimonio straordinario da difendere che si rischia di mettere in crisi se girate la testa dall’altra parte. Ancora qui, nelle vostre province, ci sono sacche mafiose”. Severo e senza mezzi termini, La Torre che ha spiegato come in tutto il mondo esistano 5.500 organizzazioni criminali molte delle quali con un profilo mafioso. “La mafia si stabilisce laddove lo Stato e la democrazia sono in bilico. Dove le Istituzioni non sono robuste quel sistema di potere interviene perché tutto rimanga com’è”, ha rammentato.
La Torre, cosa si intende per «Nuovo codice antimafia»?
“Il titolo «Nuovo codice antimafia» indica un percorso che inizia con una storia personale, quella di mio padre, Pio La Torre. C’è una legge in Italia, n. 686/82, meglio nota come legge Rognoni-La Torre, che introduce le misure di sequestri e confische alla mafia per restituirli alla collettività. Da questa legge al Nuovo Codice tante associazioni hanno scritto un aggiornamento di quella normativa e quel percorso legislativo è oggi inserito all’interno del testo. La raccolta è avvenuta anche nei comuni del riminese. Perché la gente fa questo? Perché è consapevole che occorre ritornare a essere uniti e studiare la storia civica per capire da dove veniamo”.
In Emilia-Romagna c’è la mafia?
“In questa terra, ma più in generale in Italia, c’è ma non si vede. Qui c’è la mafia che investe e che compra e non che spara e uccide, ma sempre di mafia si tratta. La mafia la riconosci se la conosci. Cito un aneddoto significativo: Emanuele Macaluso, storico dirigente del partito comunista all’inizio degli anni ‘50 ricevette in Sicilia una delegazione PC proveniente dalla Valle D’Aosta, e i delegati gli chiesero: «Ci fa vedere un mafia?». Adesso, soprassedendo l’espressione, al tempo a Palermo era possibile trovare nei quartieri popolari i mafiosi che si identificavano perché presentavano carnagione scura, baffi e coppola. Ma sarebbe stato fuorviante. Io mi appoggio su una definizione di mio padre, il quale sosteneva che la mafia è un fenomeno di classe dirigente, non di classi subalterne che subiscono la legge ma di coloro che fanno la legge, ossia gli infedeli alle fondamenta della nostra giovane Repubblica democratica. Classi che si affacciano con il Referendum della liberazione e rifiutano i fondamenti. Quelle classi dirigenti infedeli l’ostacolo se non lo riescono a intimidire e a corrompere, lo eliminano”.
Cosa intendiamo per ostacolo?
“È quel soggetto individuale e collettivo che si batte per l’affermazione dei diritti democratici. Si pensi all’articolo 1° della Costituzione italiana: «L’Italia è una Repubblica fondata sul diritto del lavoro». Loro, i mafiosi, questo diritto lo concedono a fronte di un altro diritto: io do il lavoro a te e voi votate per chi dico io. Due diritti. Loro si appropriano di tutti i diritti. Si pensi all’articolo 21, diritto all’informazione: se tu scrivi di mafia fai una brutta fine, o vivi sotto scorta. Ancora fanno loro il diritto a vivere in un ambiente sano, il diritto alla salute. Per questo mio padre diceva che la lotta contro la mafia è «Parte della difesa della democrazia»”.
Quanto è ancora necessario arrivare fino in Sicilia per trovare la mafia?
“Non molto. Oggi spesso investimenti importanti avvengono nel Nord. Essa si riscontra in quei territori dove le organizzazioni mafiose si sono sviluppate, al Sud. Anche se la cronaca di questi tempi ci consegna una mafia nata altrove: si pensi a Mafia Capitale. Io vivo a Roma. Non ci facciamo mancare niente lì, l’ultima la settimana scorsa dove un’operazione ha colpito famiglie mafiose locali. Il nostro Paese è bizzarro, contraddittorio. Nella relazione redatta da mio padre, ad esempio, si fa riferimento a quanto Cosa Nostra fosse già in quegli anni radicata al Nord”.
Arriviamo al Codice antimafia. Ci spieghi la sua genesi.
“All’interno del primo Codice antimafia, opera del ministro Alfano del governo Berlusconi (6 settembre 2011), si lavorò nel tentativo di mettere ordine su un apparato di norme che rendeva difficile l’opera dei magistrati. Infatti, il nuovo Codice antimafia – che è da leggere come una riforma – riguarda le misure di prevenzione in relazione al sequestro e alla confisca dei beni, non interviene sul 416-bis, ma sulle indagini patrimoniali: ora i magistrati possono accedere al segreto bancario. La mafia si basa sull’accumulazione illecita. Acquisisce in modo illecito o lecito il controllo di attività economiche di concessioni, di autorizzazioni, appalti e uffici pubblici. Questa è la finalità: l’acquisizione del bene comune, e lo fa attraverso il controllo dei processi decisionali politici. In Italia ci sono 40 mila beni confiscati, ben 17 a Rimini. Delle 3 mila aziende che producono 30 miliardi di reddito, molte falliscono. Alcuni esempi li abbiamo qui in provincia, non tornano a nessuno, spesso restano come scheletri. Ma c’è un problema: ancora oggi non c’è una banca dati di questi beni e non c’è un’azione di coordinamento tra i tribunali. La riforma, dunque, cerca di mettere ordine: è infatti previsto il rafforzamento dell’agenzia nazionale sui beni confiscati dandogli una natura più manageriale, prevede, inoltre, delle misure per cui le aziende confiscate adesso dovrebbero essere affidate a manager e non a legali che ne sanno poco. Infine, c’è un fondo a sostegno della ripresa dalla illegalità di queste aziende”.
È contento di questa riforma?
“In politica il miglior risultato che puoi raggiungere è quello che ottieni. Questa riforma rischiava di non essere approvata entro questa legislatura. Poi come tutte le riforme ha i suoi punti di criticità e il fatto di essere stata approvata non basta poi deve essere attuata senza decorare le librerie. Nel complesso va bene: non è la riforma di tutte le norme del Codice ma punta a rafforzare la parte debole, ossia le misure di prevenzione, perché la parte penale devo dire che fino ad ora ha funzionato”.
Alessandro Notarnicola