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La retorica della maternità

Al centro, il soprano Annette Dash (Alma) - PH Barbara Pálffy

Alla Volksoper di Vienna ha debuttato la nuova opera di Ella Milch-Sheriff dedicata ad Alma Mahler 

VIENNA, 31 ottobre 2024 – Quando si pensa ad Alma Mahler la prima cosa che viene in mente è la lunga lista di uomini famosi – tre li ha anche sposati – che con lei hanno intrecciato relazioni amorose. Non si immaginano mai, invece, i suoi rapporti coi figli. Al contrario, proprio in quest’ottica si muove il libretto dell’opera Alma – cinque atti assai ben costruiti dal drammaturgo Ido Ricklin per la compositrice israeliana Ella Milch-Sheriff – che ha appena debuttato alla Volksoper di Vienna. A differenza della famosa monografia dedicatale dalla scrittrice Françoise Giroud, concentrata soprattutto sulle vicissitudini erotiche della protagonista, in Alma vengono scandagliati i rapporti con la prole: un percorso che, giunti all’epilogo, approda a una spiegazione (se non a una giustificazione) del disinteresse di Alma Schindler, vedova Mahler, nei confronti del sangue del suo sangue. Alla radice di tanta indifferenza e apparente cinismo – sembra suggerirci quest’opera – c’è la frustrante rinuncia a sviluppare il proprio talento musicale impostale dal primo marito, Gustav Mahler appunto. Costretta a sopprimere quelle musicali, che riteneva le sue vere creature, l’indifferenza verso i figli diventa un corollario quasi inevitabile.

Il soprano Annette Dash (Alma) – PH Barbara Pálffy

L’efficace costruzione del libretto procede a ritroso e, partendo dal 1935, arriva al 1901. Nel primo quadro si assiste al funerale – dove la madre non partecipa, con grande scandalo dei benpensanti – di Manon, la figlia avuta con Walter Gropius fondatore del Bauhaus e suo secondo marito, morta di poliomelite a soli diciotto anni (è lei l’angelo cui Alban Berg dedicò la sua ultima composizione, il Concerto per violino). Sette anni prima, al centro del secondo quadro si trova invece Martin, il figlio abbandonato in sanatorio e lì deceduto in totale solitudine a un anno di età: forse concepito con il poeta Franz Werfel, che diventerà suo terzo marito, ma con cui aveva già avviato una liaison quando era ancora moglie di Gropius.
Nel 1912 – terzo atto – si viene catapultati nel mezzo della turbolenta relazione con il geniale ed esaltato pittore Oskar Kokoschka: ma qui la gravidanza sfocia volontariamente in un aborto, e il bambino “mai nato” scatena il furioso dolore dell’artista. Continuando a ritroso, gli ultimi due quadri, 1902 e 1901, sono invece dedicati a Mahler e alle due figlie avute con lui. La primogenita Maria, morta di difterite a neanche cinque anni, sembra la materializzazione dell’angoscia descritta dal padre nei Kindertodenlieder di qualche tempo prima. L’altra figlia, Anna, l’unica destinata a sopravvivere, è invece sempre in scena, intenta a portare a termine un busto del padre (nella realtà storica diventerà un’affermata scultrice): testimone spesso muta, combattuta tra l’affetto filiale e il rancore verso la madre, che interroga con ostinazione e volontà di comprendere.

Un simile percorso non sarebbe apparso altrettanto chiaro senza il contributo della regista austriaca Ruth Brauer-Kvam, che – attraverso una visualità espressionista illuminata da sprazzi di poesia – concepisce uno spettacolo autenticamente funzionale all’opera. I suggestivi costumi sono di Alfred Mayerhofer e la scena, molto essenziale, è di Falko Herold: una scatola lignea che, mantenendosi invariata per i cinque atti, ospita solo un grande pianoforte; un trenino giocattolo di grandi dimensioni, guidato da una locomotiva dalle sembianze funeree, che solca la scena in corrispondenza della morte di ciascun figlio; mentre l’unica nota di colore arriverà nel terzo atto dal grottesco atelier di Kokoschka.

È però soprattutto l’esecuzione musicale a valorizzare l’opera, a cominciare da Omer Meir Wellber, che ha guidato l’Orchestra della Volksoper traendone vivide sonorità. Il direttore è molto attento a evidenziare gli aspetti accattivanti di una scrittura nell’insieme tradizionale, sottolineandone gli aspetti mimetici e le numerose reminiscenze mahleriane. Esaltante, poi, la direzione di Wellber del frammento che cita l’aria delle Nozze mozartiane Contessa, perdono: utilizzata dalla Milch-Sheriff per sottolineare la dedizione di Mahler alla propria attività musicale (fu direttore d’orchestra all’Opera di Vienna dove Mozart era di repertorio), a discapito delle aspirazioni di Alma.

Nell’ottimo cast svettava Annette Dasch, perfetta nei panni della protagonista. Oltre a un’assoluta sicurezza vocale, il soprano ha sfoderato grande temperamento drammatico, notevoli qualità sceniche e persino doti atletiche (in particolare durante un amplesso con Werfel). Sua deuteragonista, la figlia Anna era invece l’austera Annelie Sophie Müller, un mezzosoprano tanto espressivo quanto musicale. Interpretavano gli altri fratelli il giovanissimo soprano Lauren Urquhart, come deliziosa Manon; il controtenore Christopher Ainslie, un sofferente Martin; il soprano acuto Hila Baggio, il bambino mai venuto alla luce; mentre la piccola Maria, ruolo solo muto, era affidato a una bimba.
Passando ai personaggi maschili, il danzatore Florian Hurler dà forma ed eleganti sembianze all’architetto Gropius, disegnando nello spazio linee e volumi geometrici, mentre lo scrittore Franz Werfel – né bello, né affascinante al pari degli altri amanti – è il formidabile tenore acuto Timothy Fallon. Nelle vesti di Gustav Mahler, primo marito, Josef Wagner ha evidenziato una vocalità più comune e naturale di baritono, quasi per sottolineare che un genio può anche essere un uomo pesante nella quotidianità. Infine il pittore e drammaturgo Kokoschka – l’uomo mai sposato da Alma, ma forse il più amato – era Martin Winkler: un interprete straordinario non solo per la notevole estensione basso-baritonale, ma capace di rendere il binomio genio e sregolatezza di questo artista borderline, afflitto da patologica gelosia e tormentato da mille fantasmi. Ottimo pure il contributo del Coro della Volksoper, chiamato a dar voce – spesso attraverso un insistente chiacchiericcio – alla curiosità becera e un po’ bacchettona di tanti nei confronti di una donna fuori dai canoni e sulla quale erano puntati gli occhi dell’intera Vienna.

Giulia  Vannoni