Durante la Guerra fredda mai si arrivò a tanto: i missili a Cuba furono dislocati, non già autorizzati a colpire. Ora che il tabù della guerra termonucleare appare violato, l’Opzione Stoltenberg comporta che anche Mosca possa scegliere di combattere a mani slegate
In una pentola d’acqua una rana nuota tranquilla. Il fornello viene acceso, l’acqua inizia a scaldarsi, ma la rana non si scompone, abituandosi al calore. Ma quando l’acqua diventa bollente essa, indebolita dalla temperatura, resta a morire bollita. Lo stesso non sarebbe stato se fosse stata immersa d’improvviso durante l’ebollizione, che l’avrebbe trovata pronta al balzo. Così Noam Chomsky descrive il principio della “rana bollita”, allegoria efficace per innumerevoli fenomeni sociali. Ma calza bene anche per la sequenza di linee rosse oltrepassate nella guerra in Ucraina. Per le rane che non se ne fossero accorte, l’ultima appena varcata rende la bollitura una possibilità prossima come non mai.
Un paio di settimane Mosca si diceva disposta a negoziare riprendendo il filo interrotto a Istanbul nel marzo 2022, con al centro la neutralità militare dell’Ucraina: evidentemente irricevibile, se Stoltenberg, oltre a dare per certa l’integrazione di Kiev nella Nato, ha appena invitato gli alleati ad autorizzare l’uso degli armamenti forniti per colpire il territorio russo in profondità, come chiesto da Zelensky: per consentire finalmente all’Ucraina di vincere, anziché lottare “con una mano legata”. Come nelle precedenti escalation di questa guerra, all’anticipazione adombrata verbalmente ha dato conforme riscontro la decisione: Francia, Gran Bretagna, Svezia, Finlandia, Polonia, Germania, Danimarca, Canada, Repubblica Ceca e (con specifiche non meglio chiarite) Usa hanno tolto le restrizioni.
Si dica pure che “la miglior difesa è l’attacco”, ma senza omettere che ciò avvicina lo spettro dello scontro frontale russo-atlantico, segnatamente atomico. Con una sola mossa, entrambi i versanti hanno l’opportunità di darsi ragione, materializzando i propri timori: la Russia nel dimostrare cosa significa avere la pistola della Nato puntata alle tempie con l’impugnatura in Ucraina; la Nato nel dimostrare che l’intenzione primaria della Russia è stata da sempre annientare l’Europa.
Durante la Guerra fredda mai si arrivò a tanto: i missili a Cuba furono dislocati, non già autorizzati a colpire. Ora che il tabù della guerra termonucleare appare violato, l’Opzione Stoltenberg comporta che anche Mosca possa scegliere di combattere a mani slegate. Se non altro perché una delle ipotesi per cui impiegare l’atomica è la minaccia diretta al territorio nazionale, da inibire alla fonte, anche laddove questa si proclamasse non belligerante.
Tecnicamente, nella dottrina russa sussiste un’altra ipotesi che, nel silenzio del nostro mainstream, si è realizzata pochi giorni prima dello sprone di Stoltenberg. Il 23 e il 26 maggio droni di fattura occidentale hanno puntato contro i radar Voronezh russi, inclusi nel sistema di preallarme atomico per la rilevazione di missili balistici. In qualsiasi dottrina militare ciò si interpreta come il tentativo di un accecamento vulnerante, a preludio di un’aggressione nucleare che intenda sferrare il primo colpo neutralizzando la reattività altrui. Pertanto richiederebbe allo Stato-bersaglio di colpire ogni potenziale nemico, non sapendo da chi potrebbe provenire l’accecamento prodromico al first strike incapacitante. Se la matrice dei raid fosse ucraina, si capirebbe la leva persuasiva volta a ottenere quel che poi Stoltenberg ha espresso, pena esporre l’Occidente, suo malgrado, alla ritorsione russa contro ulteriori azioni del genere. Tuttavia ciò costituirebbe un cortocircuito logico: accontentare Kiev per scongiurare la guerra nucleare, mediante un benestare che comunque apre al medesimo rischio.
L’altra chiave di lettura suggerirebbe nell’Opzione Stoltenberg un bluff, inteso a tastare il terreno, stanando l’indisponibilità del Cremlino a ricorrere alla deterrente nucleare. A deporre in tal senso starebbe il fatto che sinora attacchi sul territorio russo (Belgorod), con tanto di bombe a grappolo, già ci sono stati. Lo stesso vale per la presenza di militari occidentali in Ucraina (vedasi da ultimo tra le vittime del kinzhal su un centro di addestramento presso Leopoli). Eppure ben altro è il caso di attacchi sistematici espressamente autorizzati. Oppure si confida sulla scarsa capacità dei mezzi ucraini di portare a segno colpi intollerabili, ferma restando la possibilità per Mosca di circoscrivere in Ucraina i bersagli della rappresaglia convenzionale. Ma in questo poker la posta in gioco è enorme, giacché il calcolo del rischio non esclude che anche il nemico scelga di vedere le carte, facendole calare sul ciglio del baratro.
Nell’apparente nichilismo strategico è fondamentale sapere quale sia l’obiettivo ultimo perseguito. Quello di sganciare Europa e Russia – che Brzezinski caldeggiava già nel 1997, suggerendo di mirare proprio alla cerniera ucraina – è stato senz’altro raggiunto. Se esso si inscrive nelle sfide egemoniche globali, allora ci si dovrebbe porre il problema dell’opinione che il resto del mondo va facendosi dell’Occidente, circa la possibilità di essere coinvolto in una conflagrazione apocalittica.
Proprio quando si auspicava l’escogitazione di una via d’uscita, dopo i falliti affidamenti al verdetto del campo, ecco la scommessa su una prova del fuoco che rischia di bruciare tutti, compresi gli entusiasti che forse confidano in sicurissimi bunker.
Il deserto post-atomico non farebbe distinzioni di confine, specie in Europa. A chi, come l’Italia, ospita basi e testate nucleari non è sufficiente declinare l’invito di Stoltenberg, come già non è bastato inviare armi secretandone quantità e tipologia per dissimulare lo scollamento tra il partito unico della guerra e la maggioranza popolare. Urge invece adoperarsi politicamente per disinnescare la tragica emulazione del film Il dottor Stranamore. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. È necessario che anche la società, memore del piano inclinato gettato tra le due guerre mondiali, chieda con forza di fermarsi. Serve che ogni rana sappia del destino che l’attende nella pentola.
Giuseppe Casale
Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense
Fonte: Agensir