La bohème ha inaugurato la stagione del Comunale di Bologna con un nuovo allestimento di Graham Vick e Michele Mariotti sul podio
BOLOGNA, 25 gennaio 2018 – Infantili, spaventati dalla vita vera e del tutto incapaci di dare un senso alla morte, i quattro amici non ispirano particolari simpatie. Per La bohème che ha inaugurato la stagione del Comunale di Bologna, il regista Graham Vick – come sempre molto attento a definire i contorni politico-sociali – sceglie un periodo che è lontano circa un secolo dal 1896 e colloca così la vicenda a fine millennio. Lo scavo psicologico dei personaggi è accuratissimo: mai le aspirazioni artistiche dei quattro bohémien erano apparse così generiche e velleitarie (resta però il sospetto che si tratti di ragazzi viziati mantenuti dai genitori), né era emersa in modo altrettanto evidente la loro tendenza a sottrarsi alle responsabilità.
La scena di Richard Hudson – autore anche dei costumi – sviluppa in orizzontale i quattro ambienti che compongono lo scalcinato appartamento da studenti del primo quadro; il Caffè Momus è un’orgia di consumismo natalizio dove trionfa l’incomunicabilità; la barrière d’Enfer un luogo sordido in cui ci si prostituisce per una dose di eroina, sotto gli occhi di guardie compiacenti; ma la soffitta finale – spariti i pochi arredi – trasmette, con la sua disadorna nudità, un’angoscia e uno strazio che vanno dritti al cuore. È qui che Mimì muore fra le braccia di Rodolfo, ma lui neanche se ne accorge: il manicotto comprato da Musetta, oltre a essere del tutto inutile, non diventa, come prescriverebbe il libretto, rivelatore del decesso. Però, non appena Rodolfo si rende conto dell’accaduto, si spaventa e fugge dalla soffitta: lo seguiranno – uno dopo l’altro – Marcello, Colline, Musetta (che avidamente fa in tempo ad agguantare i soldi ricavati dall’impegno della vecchia zimarra) e Schaunard, il più simpatico e monello della comitiva: lui, almeno, si è preoccupato di coprire con un lenzuolo il corpo di Mimì abbandonato sul pavimento.
Di fronte a un realismo quasi cinematografico (o, forse, televisivo), la musica finisce quasi per essere una colonna sonora. Sul podio dell’orchestra bolognese, Michele Mariotti è stato un ideale illustratore dello spettacolo, rinunciando a prendersi la scena per creare un accompagnamento in totale simbiosi con quanto avviene sul palco. Per scandire le differenze fra il clima festoso dei primi due quadri e la seconda parte, quando l’opera vira decisamente al dramma, si abbandona a tempi più rarefatti, creando un’atmosfera di struggente malinconia, ma tenendosi sempre lontano da certe crudezze dell’orchestrazione pucciniana.
Il direttore è molto attento ad aiutare e sostenere i giovani componenti del cast. Tutti sono ben calati nei loro personaggi, a cominciare da Alessandra Marianelli che ha affrontato la scrittura di Mimì, forse un po’ sovradimensionata per lei, con qualche lieve forzatura. Riesce comunque a creare un personaggio convincente: non la ragazzina fragile, ma una donna volitiva che sa quello che vuole, anche di fronte alla morte. Matteo Lippi, un Rodolfo incapace di amare e preoccupato solo di dover soffrire, ha messo in evidenza buoni mezzi, che con il tempo imparerà a gestire sempre meglio. Ruth Iniesta, come Musetta, è vocalmente piuttosto solida e ben sonora nei momenti d’insieme: il personaggio è però banalizzato da un aspetto esteriore volgarissimo, soprattutto durante l’apparizione al Caffè Momus. Molto bravo Sergio Vitale, un Marcello ben timbrato, dall’emissione facile e omogenea. Il basso Evgeny Stavinsky, che da buon filosofo è il più duro e austero della comitiva, ha interpretato un solido Colline, e Andrea Vincenzo Bonsignore uno spiritoso Schaunard. Abbastanza efficace, nel duplice ruolo di Benoit e Alcindoro, concepiti per baritono comico, un (ex?) tenore come Bruno Lazzaretti.
Se lo scopo era far emergere un dramma che tante esecuzioni edulcorate hanno anestetizzato, l’obiettivo è stato colto. Se l’intenzione era quella di mostrare la grandezza di un’opera amatissima dal pubblico, poteva bastare molto meno. O molto di più: dipende dai punti di vista.
Giulia Vannoni