L’ultimo Rapporto Istat su “La soddisfazione dei cittadini per le condizioni di vita”, descrive un quadro della popolazione dal quale si possono estrarre due nuclei di riflessione e una discrepanza: uno positivo sulla percezione della propria qualità della vita e un altro negativo sulla fiducia verso l’altro.
La soddisfazione personale tra gli italiani riceve un voto medio di 6,8 su una scala che va da 0 a 10. Certo, la situazione economica non è delle migliori: il 58% lamenta un peggioramento della propria condizione; però l’80.2% è soddisfatto per la propria salute, il 73,2% del proprio lavoro, il 63% del tempo libero che ha a disposizione. Quando poi concentriamo l’attenzione sulle relazioni di prossimità, prendiamo atto che la soddisfazione conferma la tradizione e rimane alta: quelle familiari sono positive per il 90% e quelle amicali per l’81,8%.
Invece la fiducia nell’altro, rilevata nel rapporto, riscuote uno scarso successo: il 77,4% pensa che “bisogna stare molto attenti alla gente”. C’è un clima di diffidenza verso gli sconosciuti, che cresce andando verso le persone più lontane. Infatti quando viene posta una domanda classica “su chi riporterebbe indietro il portafoglio perso”, il vicino di casa raccoglie il 67,9% dei consensi, uno sconosciuto il 10,5%.
Forse qui si può intercettare una questione centrale per il futuro del nostro Paese. Mentre siamo individualmente soddisfatti del nostro vivere quotidiano, riveliamo una certa chiusura rispetto a “l’altro generalizzato”.
In Italia sembra affermarsi, o consolidarsi, un forte senso della comunità, quello radicato sui legami forti: i parenti, gli amici del bar, i colleghi di lavoro, l’inquilino della porta accanto. Non ci sentiamo invece garantiti rispetto al senso di società più ampia che si basa sui patti sociali, sui contratti, sulle norme e le consuetudini del vivere civile. Così il cittadino sconosciuto che convive con noi, che incontriamo sull’autobus o in fila al supermercato, non lo riconosciamo.
Leghiamo allora la nostra soddisfazione al fortino comunitario che ci costruiamo nel tempo e diffidiamo di quello che si trova al di fuori delle mura. Forse dietro c’è una cultura diffusa della competizione che è stata continuamente alimentata e che ci porta a pensarci in conflitto permanente per affermaci.
Qui riemerge un problema strutturale: come possiamo costruire insieme una società se non ci fidiamo dell’altro?
Andrea Casavecchia