L’arrivo del Covid-19 ha fatto crollare l’illusione dell’uomo di poter controllare la realtà, di poter vivere in una bolla di comfort inviolabile. E ora cosa rimane?
Il centro culturale di Rimini Il Portico del Vasaioriflette su questa domanda con un ciclo di incontri online
Lo shock della realtà. È possibile definire così ciò che l’improvviso arrivo della pandemia ha rappresentato per tutti noi.
L’impensabile è arrivato nella nostra quotidianità senza chiedere permesso, e ci ha posto davanti a una dura verità: tutti noi viviamo (o meglio, vivevamo) in una bolla auto-costruita, un insieme di abitudini, relazioni e attività perfettamente definito, che non lascia spazio all’incerto e che ci permette di vivere nell’illusione che la realtà sia controllabile, manipolabile, che noi ne rappresentiamo il centro. È bastato un organismo microscopico per far crollare tutto. Ora, dunque, è necessario chiedersi: cosa rimane dopo lo scoppio della bolla? Come approcciarsi a una realtà che, in modo traumatico, è entrata nelle nostre vite? È su queste domande che si fonda il ciclo di incontri online Come un picnic sul tetto. La sorpresa dell’umano, organizzato dal centro culturale riminese Il Portico del Vasaio sui propri canali social (Facebook e Youtube). Il primo di questi incontri, La realtà e la bolla, si è focalizzato proprio sulla reazione dell’uomo nei confronti dell’imprevedibile divenuto reale. Tra gli intervenuti c’è Mattia Ferraresi (nella foto), giornalista corrispondente dagli Stati Uniti per Il Foglio e scrittore, autore di un recente saggio che riflette sulla condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo ( Solitudine – Il male oscuro delle società occidentali, Einaudi 2020).
Una delle principali riflessioni compiute durante la fase acuta della crisi è stata quella del cambiamento: l’epidemia come occasione per modificare il nostro stile di vita, per cambiare il nostro modo di approcciarci alla vita e agli altri. Ora che l’emergenza è in via di risoluzione, cosa rimane di questa riflessione?
“In realtà sono stato un po’ scettico nei confronti di questo tipo di riflessione. Da un certo punto di vista ho percepito la questione del cambiamento derivante da questa crisi come un ritornello stucchevole, una domanda interessante ma limitata”.
In che senso?
“Interrogarsi sulle conseguenze che un’emergenza del genere può avere su di noi è, da una parte, molto bello, perché implica un grande desiderio che la realtà non ci lasci indifferenti, ci tocchi direttamente in qualche modo. In questo senso, dunque, c’è il desiderio di farsi toccare dalla realtà. Dall’altra parte, però, credo che la questione abbia un grande limite, che sia influenzata da un sottofondo che definirei ‘naturalista’: implica, cioè, che l’uomo sia semplicemente un qualcosa che, come tutti gli esseri naturali, si adatta agli stimoli che riceve, ai cambiamenti che avvengono attorno a lui e ai quali si trova sottoposto. Il limite, a mio parere, è proprio qui: vedere la volontà di cambiamento dell’uomo come un mero processo di adattamento naturale a un mutamento della realtà circostante, senza differenze rispetto a ciò che avviene in tutti gli altri ambiti del mondo della natura”.
Come superare questo limite?
“Riflettendo sul fatto che l’uomo è colui che decide. Non è un essere che vive solo nell’oggi, nella risposta a uno stimolo immediato, ma è in grado di scegliere volontariamente e consapevolmente di imparare dai cambiamenti della realtà. L’uomo vive nella dimensione della Storia, fatta di memorie e di proiezioni nel futuro, di progetto, di incertezze e di domande.
Ed è proprio qui la libertà: la libertà di decidere, di scegliere”.
Questo ragionamento è applicabile anche alla solitudine, un’altra grande questione dei tempi che stiamo vivendo e che lei ha affrontato nel suo saggio?
“Sì, per quanto riguarda la solitudine la penso esattamente allo stesso modo. Credo, infatti, che la solitudine sia stata una scelta della nostra società: la modernità e, soprattutto, il mondo contemporaneo, ha scelto come dimensione principale quella dell’individualismo e dell’autorealizzazione come scena fondamentale su cui avviene il grande spettacolo del mondo. Il mondo, in sostanza, come palcoscenico, in cui però c’è un solo protagonista: l’io, in grado di realizzare se stesso in un modo o nell’altro. Una condizione, questa, che di certo non è arrivata dal nulla, ma è stata fortemente voluta dall’uomo. Una grande volontà di essere solo, cioè svincolato dai rapporti, o comunque vincolato ma solo quando i rapporti sono gestibili in modo condizionato, all’interno di uno spazio limitato che possiamo controllare. In quest’ottica, dunque, ricollegandomi anche al tema della scelta dell’uomo, spero che la pandemia possa diventare opportunità di riflessione sulla società che ci siamo costruiti, ma questo avviene se c’è una decisione di prendere sul serio le vicende esistenziali fondamentali che la pandemia ha fatto emergere, e non come reazione naturale automatica alle circostanze della realtà”.
Come superare questo concetto di solitudine, che rischia di acutizzarsi ancora di più dopo il lungo lockdown che abbiamo vissuto?
“Non è facile rispondere, perché la solitudine non è solo la lontananza fisica dalle persone. A tutti, prima o poi, capita di vivere la situazione in cui si è circondati da tante persone ma ci si sente comunque soli. Una suggestione interessante, secondo me, è quella che vede nell’innamoramento il vero punto di rottura della solitudine: quell’esperienza dirompente che porta alla consapevolezza che c’è un Tu senza il quale io non posso essere me stesso compiutamente. Partendo da questa chiave di lettura credo che, in relazione al periodo di ‘reclusione forzata’ in casa che abbiamo vissuto, ci sia il grosso rischio che la solitudine si acutizzi, che rimanga un atteggiamento di scetticismo verso l’altro. L’altro rischia di essere concepito non solo come colui che potenzialmente porta la malattia, ma anche come ciò che rompe la ‘bolla’ del comodo, del controllabile, del certo. Uno scetticismo, dunque, verso l’altro in termini più generali, che lo allontana ancora di più, rendendo ancora più difficile il superamento della solitudine”.