La mia percezione è che abbiamo quasi sradicato la sindrome di Down dalla nostra società, in Islanda non nasce quasi mai un bambino con questa sindrome”. “Abbiamo terminato una vita possibile, che potrebbe avere grandi complicazioni, impedendo la sofferenza per il bambino e per la famiglia”. Frasi come queste colpiscono nel profondo, perché vanno a turbare l’umanità, quella dimensione che è la più intima e, allo stesso tempo, caratterizzante la natura di tutti noi. O quasi. Sì, perché purtroppo le frasi riportate non sono inventate, non sono estrapolate da un film o da un romanzo, non derivano da epoche antiche e retrograde. Sono tristemente reali, e pronunciate da scienziati del nostro tempo: rispettivamente Kari Stefansson, fondatore della deCODE Genetics, società che ha studiato il genoma della popolazione islandese, e Helga Sol Olafsdottir, che si occupa di accompagnamento psicologico alle donne in gravidanza presso il Landspitali University Hospital, sempre in Islanda.
Parliamo di aborti selettivi, quel fenomeno per il quale, in seguito a test prenatali che arrivano a una diagnosi di malattie o malformazioni del feto durante la gravidanza, porta all’aborto come principale soluzione, anche se quelle malattie o malformazioni non sono incompatibili con la vita o con l’incolumità del feto o della madre. Attenzione, però. Occorre essere chiari: non si vuole certamente giudicare una scelta dura e dolorosa come quella di interrompere la vita di un figlio. Non è un tema generalizzabile, ed è talmente delicato e privato che un qualsiasi commento superficiale, senza conoscere ogni singola situazione familiare, sarebbe simile a una violenza. Ciò che si vuole evidenziare, e condannare, è invece una tendenza generale, un orientamento culturale che vuole far passare il messaggio che malformazione o malattia siano sinonimi di non dignità alla vita. Che la vita sia degna solo se priva di qualsiasi elemento che causi sofferenza, come se la sofferenza non facesse parte della vita. E che quindi interrompere quella vita sia la prima, e più logica, conseguenza.
Aborti e Sindrome di Down, un problema internazionale
Lo scorso 13 ottobre è stata la Giornata Nazionale delle persone con Sindrome di Down. Una ricorrenza importante, che si lega profondamente al tema di cui si sta parlando. Perché la maggior parte dei casi di aborti selettivi a seguito di indagini prenatali, a livello internazionale, riguarda proprio le diagnosi di Sindrome di Down. Le frasi riportate in apertura di articolo, purtroppo, non rappresentano pensieri sporadici o eccezionali. Parlando dell’Islanda, infatti, la situazione degli aborti selettivi di bambini con Sindrome di Down è quella più eloquente. Secondo un’articolata inchiesta dell’emittente americana Cbs, che ha puntato i riflettori sull’argomento alla fine del 2017 e che è stata poi rilanciata da giornali e mass media in tutto il mondo, su una popolazione di circa 330mila persone, in cui 85 donne incinte su 100 si sottopongono ai test di screening, l’Islanda in media conta solo uno o due bambini nati con la sindrome di Down all’anno. Tradotto: una percentuale di aborti che raggiunge quasi il 100% dei casi di diagnosi della sindrome. Una situazione che suscita inquietudine, la cui portata allarmante si acuisce se si va oltre l’Islanda, e si allarga la prospettiva a livello internazionale: secondo la Canadian Down Syndrome Society, la popolazione dei portatori di Sindrome di Down in tutto il mondo si è ridotta addirittura dell’80/90% negli ultimi 10 anni. Non solo: secondo i dati più recenti disponibili, gli Stati Uniti hanno un tasso di interruzione di gravidanza per la sindrome di Down stimato al 67% (1995-2011), in Francia al 77% (2015), 98% (2015) in Danimarca, 95% in Spagna e 65% in Norvegia. E purtroppo, questa tendenza colpisce anche il nostro Paese.
La situazione in Italia
In Italia il caso più emblematico si registra nel Nord, dove a sollevare l’argomento, nel 2018, è stato il dottor Enrico Busato, direttore dell’Unità di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale di Treviso. “Su dieci donne, sette interrompono la gravidanza quando vengono a sapere che il loro figlio potrà avere qualche imperfezione. – spiega il dottor Busato – Numerosi genitori, decidono per l’aborto. Li vediamo catturati dalla paura, temono di rimanere soli, considerano subito il figlio che portano in grembo un ‘peso’ più grande delle loro forze”. La paura dei genitori, in un momento difficile come quello, è comprensibile e non condannabile. Ma occorre un cambio di mentalità, un supporto ai genitori che vada oltre la mera elencazione delle prospettive negative che un bimbo con sindrome di Down avrà una volta nato, che arrivi a far capire che la vita di un figlio conta più della sua forma. In caso contrario, si rischia di arrivare a una nuova eugenetica: non più imposta da un regime, ma accettata da tutti, come normalità. Ed è questa la vera malformazione.