La “nuova cristianità” perduta. Con questo titolo nel 1985 veniva pubblicato dalle Edizioni Studium un piccolo volume di riflessioni di Pietro Scoppola “tese a mostrare come e quando la coscienza del passato spinga a guardare alla realtà del nostro tempo con occhi nuovi, a cogliere con sensibilità accresciuta i nessi che esistono fra le diverse forme di vita associata, che uniscono la vita religiosa alla politica, non meno che all’economia, per assumere responsabilità conseguenti”..
Ad un anno dalla morte di Pietro Scoppola, uno storico che ha lasciato il segno nella cultura italiana e di un maestro che ha formato le coscienze di più di una generazione, pubblichiamo un’intervista radiofonica all’autore fatta allora da Pier Silverio Pozzi, andata in onda il 15 aprile 1985 nell’ambito dei programmi della Rai per il Lazio.
Un libro, una provocazione
Professor Scoppola, lei ha scritto nella premessa che questo suo libro vuole essere una provocazione. Credo che il titolo stesso La “nuova cristianità perduta” sia una provocazione. Lo vuole spiegare?
“La provocazione è in quella contrapposizione tra il «nuova» e il «perduta», se è nuova come mai è già perduta? L’espressione «nuova cristianità” era stata usata negli anni Trenta in uno scritto famoso Umanesimo integrale del filosofo francese Jacques Maritain e in questa espressione Maritain riassumeva il progetto di una nuova società, di un modello nuovo di società distinto sia dal modello capitalistico, che allora appariva in crisi, e sia dal modello comunista che si presentava con il volto dello stalinismo, il volto disumano possiamo dire dello stalinismo. Questo modello di nuova cristianità ha mobilitato nel dopoguerra, dopo la caduta del fascismo, molte energie nell’Europa e in particolare nell’Italia che ha visto in questo un punto di riferimento importante, soprattutto per le nuove generazioni. Ebbene si sono mosse queste energie, si sono impegnate nell’azione, hanno dato vita a un grande movimento sociale e politico che ha avuto grande successo, non dimentichiamo il 18 aprile del ’48, ma da tutto questo che cosa è nato? Non è nata una nuova cristianità, è nata la società secolarizzata del nostro tempo, la società consumistica che è altra cosa dalla nuova cristianità che Maritain aveva progettato. In questo senso è perduta”.
Analizzando i difficili rapporto tra vita religiosa, politica, sociale ed economica dei cristiani nel nostro paese, dal dopoguerra ad oggi lei sostiene che i cattolici impegnati nel politico hanno sì il merito di aver reso possibile lo sviluppo industriale, ma sono altresì corresponsabili dell’affermarsi di questa società consumistica causa prima del particolare processo di secolarizzazione in atto nel nostro paese.
“No, io per la verità non dico che sono corresponsabili, io dico che c’è una coincidenza tra periodo in cui i cattolici hanno avuto la massima responsabilità di governo e processo di sviluppo della società consumistica con tutti gli effetti collaterali che sono, tra l’altro, quello della secolarizzazione, della perdita di certi valori della tradizione cristiana. C’è una coincidenza ma non c’è un nesso di causalità. Mi spiego meglio. La mobilitazione cattolica ha creato un consenso democratico così ampio, così diffuso nel nostro paese che ha reso possibile una fase di grande sviluppo industriale. Questo sviluppo, non lo dimentichiamo, è quello cui dobbiamo la liberazione della miseria secolare nel nostro paese. Non possiamo dimenticarci che ancora nel dopoguerra nel nostro paese c’erano sacche di miseria gravissime nel sud, in alcune zone del mondo contadino, di cui oggi si è perso quasi il ricordo, ma che sono pure molto importanti per capire l’opera, il ruolo che ha svolto questa mobilitazione dell’energia del mondo cattolico. Ma insieme a questo sviluppo economico, a questa industrializzazione che ha prodotto questi effetti positivi e benefici nella vita sociale del paese, abbiamo avuto che cosa? La nascita della società industriale con tutti i suoi meccanismi, per giunta c’è stata la coincidenza che io sottolineo tra sviluppo dell’industria e diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. Nel 1954 entra in funzione, all’inizio dell’anno, la televisione e questo fa da effetto moltiplicatore, accentua gli effetti dell’industrializzazione, si crea una mentalità nuova, la mentalità della società dei consumi, e come effetto di queste trasformazioni, di questo mutamento di mentalità abbiamo anche quei processi di secolarizzazione che incidono sulla cultura tradizionale del mondo contadino e mettono in crisi la vecchia tradizionale cristianità presente nel nostro paese, la società cristiana del passato viene travolta da questi processi di sviluppo”.
Perché siamo secolarizzati?
All’origine di questa società secolarizzata non c’è solo il consumismo, c’è il responsabile disimpegno degli uomini di cultura, di tutti, sia laici che cristiani.
“Non so se si possa parlare di disimpegno degli uomini di cultura, perché nella storia di questi 40 anni in realtà gli uomini di cultura sono stati spesso protagonisti. Semmai gli uomini di cultura sono stati troppo incollati alle posizioni dei rispettivi gruppi politici, dei rispettivi partiti, non ci sono state le condizioni di un dialogo aperto nella cultura, tra le diverse culture, che rendesse possibile una presa di coscienza comune di quelli che erano gli elementi nuovi che si venivano manifestando nella realtà italiana. Ciascuno si è preoccupato di posizioni di parte più che guardare con occhio critico, con attenzione vigile a quello che il paese stava diventando. Il compito della cultura avrebbe dovuto e dovrebbe essere questo: di muoversi, vorrei dire, un passo più avanti rispetto agli uomini di azione che sono impegnati nella quotidianità della politica, un passo più avanti quindi con una attenzione più attenta a quello che sta accadendo nel profondo. Direi che nel complesso questa funzione critica, e diciamo pure un po’ profetica, la cultura italiana non lo ha svolto, è stata un cultura molto legata alle singole posizioni oppure talvolta – e questo è vero, non posso non darle ragione – su posizioni di fuga, una cultura chiusa in se stessa che coltivava i suoi spazi senza una grande attenzione a questi fenomeni e alla responsabilità che questi fenomeni comportava”.
Ritorniamo a parlare della secolarizzazione. Lei professor Scoppola, parlando della società secolarizzata, scrive che la cristianità è davvero perduta come realtà sociale, come mondo dei valori vissuto, come modo di vita di una comunità nel suo insieme. Ma allora è valida l’equazione secolarizzazione uguale cristianizzazione.
“Non credo che si debba identificare secolarizzazione con scristianizzazione. Il concetto di secolarizzazione ha anche aspetti positivi che vanno sottolineati, e io ne faccio cenno nelle pagine del mio volume. Se intendiamo la secolarizzazione nel senso tradizionale, classico, come processo cioè di differenziazione, di conquista di autonomia del sapere scientifico, di conquista di autonomia della politica, dell’economia rispetto ad una visione di tipo sacrale quale è quella che veniva dalla tradizione medievale, dalla tradizione dei secoli passati. Se intendiamo secolarizzazione come processo di distinzione, di conquista di autonomia all’interno di un mondo di valori che rimane saldo e che rimane valido, tutto questo è positivo, ma la secolarizzazione, io sostengo in questo mio volumetto, ha avuto in Italia un altro significato, un altro volto, non è stata crescita e processo di differenziazione all’interno di un mondo di valori, è stata, per certi aspetti, uscita da questo mondo di valori, è un salto, io dico, in un vuoto etico. In questo senso questo tipo di secolarizzazione ha portato a una scristianizzazione, ad una caduta dei valori tradizionali senza che siano nati in Italia forme di comportamenti etici alternativi”.
La cultura di fronte al vuoto
Professore un’ultima domanda. Di fronte a questo vuoto etico che cosa possono e debbono fare gli uomini di cultura?
“Gli uomini di cultura devono uscire da questa logica delle appartenenze politiche, partitiche, devono essere i primi a sentire la responsabilità di un impegno comune, di un dialogo, per rifondare nel nostro paese questa base, questo tessuto etico che è la condizione della stessa vita democratica. Non è possibile la democrazia come semplice compromesso di interessi, se la democrazia non è sostenuta, animata da un tessuto di valori morali, da uno spirito religioso, nel senso più ampio del termine. Nel nostro paese tutta la cultura deve collaborare a questa rinascita, a questo rinnovamento culturale. La sensazione un po’ amara è che oggi ci si continua a dividere e a combattere nelle vecchie trincee, sulle vecchie posizioni. Si continua a polemizzare sullo stato laico, come se ci fosse ancora lo stato laico degli anni di Gentile: quando lo stato esprimeva questi valori, aveva un suo disegno educativo. Ma oggi lo stato italiano è il primo ad essere coinvolto nella crisi della quale stiamo discutendo. Non ha senso che noi ci contrapponiamo sul concetto dello stato laico, e viceversa avrebbe molto più senso se si facesse uno sforzo comune per ridare forza, valore, credibilità, ai valori della nostra costituzione, al dettato, ai grandi valori che sono scritti nella costituzione e che rischiano altrimenti di restare lettera morta e di non essere più qualcosa di vivo che deve sostenere la vita associata in questo paese”.
Pier Silverio Pozzi