La sua era una vita normalissima. Come quella di tanti 17enni. Studiava, lavorava, e si divertiva. Almeno fino a quel maledetto giorno. Almeno fino a quel maledetto dolore. Insopportabile. Costante. Proprio lì, in pieno petto. Con il cuore che inizia a fare le bizze. Quasi volesse uscire dalla scatola toracica. La corsa all’ospedale, le visite, il tempo che non passa mai. E poi la terribile diagnosi: cardiopatia amiloidotica. Un male incurabile, se non con un trapianto. Ma questo, i medici, a Fabrizio Gessaroli non lo dicono. La malattia del resto non è ancora nella sua fase acuta. Ma quel giorno la vita di Fabrizio cambiò per sempre. L’Infermi e il Sant’Orsola di Bologna iniziano ad essergli familiari. Ci entra e ci esce, ma solo per fare dei controlli. Fino a quattro anni fa. Fino a quando la sua cardiopatia diventa irreversibile. Il dolore aumenta, le gambe si gonfiano, il bere diventa un calvario. Fabrizio sta più in ospedale che a casa. La sua vita inizia a scorrere come la sabbia in una clessidra. Lenta. La speranza è che da un momento all’altro una “mano” possa girarla e ridargli tempo e speranza. Quello che succede il primo settembre dello scorso anno.
“Mi trovavo in ospedale – racconta Fabrizio, felpa bianca, jeans, scarpe da tennis ai piedi ma soprattutto un sorriso che racconta tutta la sua felicità – era l’ennesimo ricovero in poche settimane, mi stavo accorgendo che con il passare del tempo la situazione stava iniziando a degenerare. Mi ricordo che era appena passato il medico che mi aveva detto che nel giro di 48 ore sarei tornato a casa. Diciamo che stavo facendo già le valige quando sono arrivati nella mia stanza il dottor Piovaccari e la sua equipe dicendomi che avevano trovato un donatore e che potevo fare il trapianto di cuore”.
Il tempo, però, stringe. Bisogna raggiungere velocemente Bologna. Fabrizio chiama i familiari, mette tutto nella sua valigia carica di speranza e raggiunge il Sant’Orsola.
“L’intervento era in programma addirittura per la sera, invece poco prima di andare in sala mi dissero che era tutto rimandato alla mattina dopo. Non so come ma quella notte riuscii a dormire lo stesso nonostante fossi quasi inebetito dalla gioia per quello che mi stava accadendo”.
La mattina del 2 settembre Fabrizio entra in sala operatoria dove rimane per quasi otto ore.
“Mi ricordo che dopo aver salutato tutti guardai in alto e dissi «Signore, fammi svegliare con il tubo in bocca». Prima di entrare, infatti, mi avevano spiegato tutto quello che sarebbe accaduto e mi avevano sottolineato il fatto che c’era anche il rischio che il cuore non andasse bene. Invece ricordo benissimo che appena ripresi conoscenza, cercai di capire se avevo quel benedetto tubo in bocca, e l’avevo. In quel momento ho provato una gioia che non saprei descrivere. Quasi come se mi fosse stata data una seconda vita”.
Una vita difficile, però. Soprattutto nelle settimane successive. E sempre con quella paura che possa capitare qualcosa da un momento all’altro.
“In realtà qualcosa è capitato (ride guardando il dottor Piovaccari, ndr) nel senso che il cuore era un po’ piccolo per me e così si è formato un liquido che i medici sono stati costretti a togliermi”.
Già, i medici. Una sorta di angeli custodi della nuova vita.
“Lo può ben dire. Soprattutto i primi tempi dipendi praticamente da loro e sono tutti eccezionali, ti seguono con una perizia, con un amore davvero sconfinato. A Bologna come a Rimini, anzi, più qui che là perché all’Infermi sanno che cosa ho passato. Mi sento di dire che queste persone sono diventate una sorta di seconda famiglia”.
La prima, quella vera, lo ha potuto riabbracciare dopo un mese.
“Ricordo che quando ho aperto la porta di casa ero emozionatissimo. Sudavo, non avevo più saliva. Per poco non mi viene un infarto (e giù un’altra risata)”.
Trentacinque anni, Fabrizio lavorava in un’azienda che faceva scarpe dove conta di tornarci molto presto.
“Prestissimo, anche perché piano piano sto ritrovando tutto quello che avevo perso per strada”.
Vederlo sorridere è vedere un’esplosione di vita. La sua allegria ti contagia. Poi, però, ad un tratto il suo volto ti trasmette tristezza.
“Io oggi sono qui a ridere e scherzare ma so che a Piacenza c’è una famiglia che piange un figlio di 24 anni. Il suo cuore adesso batte dentro di me. Quando ne avrò la possibilità prenderò carta e penna e scriverò alla sua famiglia, non so come riempirò la carta, probabilmente gli dirò solo grazie”.
Un grazie che Fabrizio ripete tutte le mattine da quel 2 settembre di sette mesi fa.
Francesco Barone