Albert Einstein diceva: Chi non ha mai commesso un errore non ha mai provato nulla di nuovo. Trasferirsi in un paese straniero può comportare di certo rischi e difficoltà, ma questo non significa che ci si debba davvero reinventare per iniziare una vita da capo. È questo che ha pensato Gianmaria Zamagni, 46enne riminese, quando ha deciso di trasferirsi in Germania nel 2011, e iniziare la sua carriera come docente universitario in Storia della religione e della Chiesa all’Università di Francoforte sul Meno.
Dottor Zamagni, partiamo dall’inizio: che scuole ha frequentato?
“La mia formazione scolastica, e più in generale adolescenziale, è stata tutta riminese, quella universitaria bolognese: all’Alma Mater ho studiato Filosofia della Religione, prevalentemente con Pier Cesare Bori, una figura di ricercatore che mi piace ricordare. Dopo essermi laureato nel 1999, ho ottenuto il dottorato in Scienze Religiose a Ginevra, nel 2004. Una tappa importante e lunga è stata la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, anch’essa a Bologna. Da qui è partita la mia carriera accademica finché, nel 2009, mi sono trasferito in Germania dove, due anni dopo, ho iniziato a insegnare alla Johann Wolfgang Goethe di Francoforte”.
Fare il professore universitario era il suo sogno?
“Non direi che abbia avuto questa aspirazione in maniera consapevole, no. Forse, però, si può dire che la ricerca scientifica è stata una grande, e faticosa, passione fin dagli anni centrali dell’università, e mi piace tentare di trasmettere un poco di quella curiosità ai nuovi studenti”.
Qual è la differenza più grande fra l’università italiana e quella tedesca?
“Il paragone stesso è molto difficile: non so se l’università italiana sia ancora come quella di Bologna che ho conosciuto io negli anni ’90. Le differenze sarebbero in questo caso notevoli; sebbene il carico didattico si sia ridotto considerevolmente negli anni (gli esami allora erano di diverse migliaia di pagine, cosa oggi impensabile), in Germania la didattica frontale è molto meno frequente, e si prediligono (utilissime) esercitazioni in aula e anche relazioni fatte dagli studenti a turno o in gruppi, e gli esami sono molto meno importanti. Questo mi permette, per esempio, di cercare di trasmettere un senso critico nella lettura delle fonti (per lo più non recenti), e di addestrare gli studenti a vincere timidezze e insicurezze nell’analizzare e sintetizzare ai propri compagni studi complessi (per lo più classici della saggistica storicoreligiosa) in maniera intelligente in qualche decina di minuti”.
Ha fatto fatica ad abituarsi ad un mondo accademico diverso da quello italiano?
“L’idea che sto cercando di trasmettere è ‘antistatica’: il mondo accademico che ho conosciuto a Filosofia nel 1993 era diverso da quello di Scienze politiche nel 1998, quello di Ginevra – dove ho studiato per il dottorato – nel 2003, molto diverso da entrambi i precedenti, e poi la Germania nel 2009 ancora diversa. Non so se si possa parlare di un flusso, che presume un’omogeneità; ma forse in questo senso sì: quel liquido siamo noi ragazzi e ragazze che diventiamo adulti attraversando passaggi e paesaggi diversi, con più o meno coraggio, per caso, destino o disegno della provvidenza. E non è ancora finita, perché sono ancora in fase di formazione, più specificamente teologica, a Vallendar, in Renania centrale dove, in questo momento sto seguendo anche un bellissimo progetto”.
Quale, se si può sapere?
“Certo! È il progetto a cui lavoro da più tempo e che mi dà da vivere e che avrà le maggiori ricadute: il Commentario intercontinentale del Vaticano II. Ne sono il coordinatore tecnico-scientifico, devo coordinare in 4 lingue il lavoro di un centinaio di teologi da tutti i continenti”.
Quali sono i lati positivi e negativi della vita in Germania?
“Non è facile mettere le cose in una lista, perché sebbene credo che le due nazioni siano molto simili e oserei dire sorelle, ci sono anche tantissime differenze. Comunque la Germania mi sta offrendo delle possibilità di crescita, davvero importanti; a un certo punto del mio percorso questa crescita ha minacciato di doversi fermare e quindi ho colto abbastanza al volo l’occasione di trasferirmi, sebbene per esempio il tedesco non fosse né la prima né la seconda delle mie lingue straniere, non avendolo mai studiato a scuola. Lo dico come incoraggiamento alle ragazze e ai ragazzi di oggi. I lati negativi sono davvero semplicemente l’altro lato della medaglia: non si finisce davvero mai di imparare e di crescere, e questo può essere anche faticoso (specialmente dopo i 40!): padroneggiare la lingua, i metodi scientifici, le nuove abitudini quotidiane da acquisire, intere biblioteche da leggere. Ma dovevano essere lati negativi e ora mi sembrano tutto sommato positivi pure questi”.
Tornerebbe in Italia?
“Perché ragionare sempre in termini unipolari o bipolari?
Potrebbe accadere che io, o con tutta probabilità mia moglie Inga, riceva delle proposte professionali da altri luoghi, da altri paesi. E che non ci sia solo uno stare o un andare, un viaggio di sola andata o di andata e ritorno, e neppure un circolo forse. Potrebbe capitare di dover imparare nuove lingue per andare in nuovi paesi e da lì tornare nuovamente chissà, a una certa tappa intermedia (come è stata per me la Svizzera romanda) e poi cos’altro, chissà.
L’è tôt un garbói. Lasciarsi plasmare dalla vita, così avrei detto negli anni della mia formazione riminese”.
Ha parlato di sua moglie, ha anche dei figli?
“Due figlie: Mara e Theresa sono (loro sì, davvero) berlinesi, dicono persino qualche parola nel dialetto, o con un accento locale”.
Dica la verità, ma Rimini non le manca proprio?
“Assolutamente sì! Mi accade di sentire spesso la mancanza delle persone, dei luoghi, e anche delle cose. È come se si moltiplicassero le sfaccettature di questa pietra e si vorrebbe poter riprendere molte delle amicizie miramaresi che si sono perse nei primi anni Novanta, godere nuovamente della compagnia dei compagni d’università, tornare a non prendere troppo sul serio i dibattiti colti nei caffè bolognesi al tempo del dottorato e via via di seguito. È chiara la percezione di sentirsi un nodo non stretto e mobile, in un incrocio di fili relazionali che compongono una rete a perdita d’occhio. Molti luoghi non ci sono più: ho trascorso momenti importanti della mia infanzia dove ora c’è la nuova darsena, e quello era per me un deposito di carcasse arrugginite pieno di possibili avventure e pericoli. La spiaggia d’inverno era fatta di temporali, relitti di burrasche e anche lattine di vernice abbandonate.
Non voglio idealizzare quel passato, ma lo guardo comunque con una sorta di nostalgia, solo perché è il mondo di Gianmaria bambino. Alcune cose dell’Italia che mi mancano, però, si ricreano, si portano con sé, si reinventano. Si impara a fare la piadina in Westfalia, la pizza a Berlino, il basilico di questa stagione si coltiva sempre nuovamente sul balcone, e a fine agosto si fa l’unico vero pesto di tutto l’anno. Alcune cose, invece, semplicemente non ci sono, detta con una battuta a metà e per restare alla tavola: lo squacquerone. Rimini appare molto più bella oggi di quanto non fosse quarant’anni fa, in ogni caso, mi pare, più consapevole del proprio valore.
Io certo me ne sono andato, ma non l’ho mai abbandonata, e anzi la porto con me naturalmente, ovunque, e conservo dei legami importanti, familiari, d’amicizia, anche istituzionali, e sono grato a te, Serena, e a ilPonte, per questa chiacchierata, che è un momento di cura di questo legame”.
Serena Creatore