In un confronto con fratelli sacerdoti, all’inizio della crisi, affermavo che non vedevo opportuno lasciare su Facebook e Youtube quella miriade di Messe che si stavano celebrando in streaming.
Era una reminiscenza degli studi in comunicazione degli anni verdi, quando mi era stato insegnato che la Messa poteva essere trasmessa solo in diretta, per non dare in nessun modo l’idea di spettacolo, e sottolinearne, anche solo in questo, la necessità di una partecipazione attiva.
Dopo tre settimane di messe in solitudine o in streaming, in una situazione che sembra durare ancora a lungo, il confronto si sta invece portando sull’essenziale: se sia cioè lecito o meno celebrare senza popolo.
Il problema l’ha posto con forza la rivista il Regno on line. In un suo editoriale afferma che continuare le celebrazioni “a porte chiuse” è affermare che “ per celebrare non è necessario il popolo”. Per la teologia invece “ quando celebriamo raduniamo il popolo” e che “ l’assemblea è la prima materia per poter poi celebrare.
Il popolo convocato serve prima del pane e del vino e senza di esso non si dà eucarestia”. In questo modo, scrive, “ riattingiamo dal modello tridentino”, mettendo seriamente in discussione la riforma liturgica e il Vaticano II. In sintesi si dice che “ meglio sarebbe stato rinunciare a celebrare e digiunare tutti”.
Non sono un teologo, dunque lascio ad altri il compito di confrontarsi con questa forte preoccupazione, espressa forse con eccessiva determinazione di fronte ad una situazione assolutamente nuova e complessa.
Da parte mia, quando in queste domeniche celebro sono solo, e questo mi fa soffrire. Allora tengo le porte aperte, quasi a superare la distanza dalle case, accendo il microfono e mi rivolgo alla mia gente, che è obbligata ad essere lontana fisicamente, ma che in questo tempo è particolarmente vicina.
E li sento vicini, come quel nonno che è all’ospedale con il Coronavirus e i suoi familiari sono in ansia, o quel pronipote di un parrocchiano appena nato e subito aggravatosi, o con tutti coloro che temono per il lavoro…
Come si può dire che non c’è il popolo quando quel sacerdote leggendo le preghiere raccolte fra i suoi parrocchiani confessa di aver sospeso un attimo la Messa per l’emozione finita in un pianto?
Quand’ero giovane mi innamorai di un piccolo libro di Pierre Teilhard De Chardin, La Messa sul mondo. Scriveva: “ Poiché ancora una volta, o Signore, nelle steppe dell’Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale, il lavoro e la pena del Mondo”.
Noi oggi abbiamo il pane e il vino, ci manca tanto il popolo, ma credo davvero che la nostra Messa raccolga il lavoro e la pena del Mondo.