Gli anni sessanta del secolo scorso hanno segnato il culmine dello spopolamento dell’entroterra riminese e dei limitrofi territori montani, e il culmine delle razzie di opere d’arte nelle chiese isolate o nei borghi totalmente o parzialmente abbandonati.
Nel Montefeltro il fenomeno ebbe aspetti davvero drammatici: nottetempo i ladri sfondavano porte e addirittura muri per portare via tutto quello che si poteva, dai mobili delle sagrestie ai candelieri degli altari. Al vescovo della diocesi feretrana, allora mons. Antonio Bergamaschi, non rimase che una drastica, dolorosa soluzione: raccogliere quanto si poteva di asportabile e metterlo al sicuro a Pennabilli. Ebbe origine da questa raccolta di emergenza il Museo Diocesano del Montefeltro, organizzato alla meglio appunto a Pennabilli nel palazzo Bocchi, da poco donato alla diocesi. Purtroppo una decina d’anni dopo quel palazzo risultò inagibile e le opere in esso riunite dovettero venire spostate nei locali dell’attiguo (e vuoto) Seminario, che più che un museo finì per sembrare un magazzino, ma ricchissimo di opere d’arte sacra di tutti i generi. Paramenti, reliquiari, oggetti liturgici di varie epoche, dipinti, mobili erano disposti come si poteva, in maniera certo inadeguata: ma erano salvi, protetti e visibili, in attesa di essere riordinati nel palazzo Bocchi di cui si auspicava il restauro. Il vescovo morì nel 1966 e la diocesi non riuscì a trovare i fondi per tale desiderato restauro; ci è riuscito l’attuale vescovo (uscente) mons. Luigi Negri, che nel 2011 vi ha potuto inaugurare il nuovo Museo Diocesano che è giustamente stato intitolato alla memoria di mons. Antonio Bergamaschi.
L’anno scorso è stato opportunamente pubblicato un volume dell’architetto Santino Langé intitolato Un popolo una memoria. Montefeltro e il suo Museo (ed. Cantagalli di Siena, pp. 190) che spiega che questo museo non vuol essere una mera raccolta di oggetti dismessi, ma “un luogo di viva esperienza, capace di riproporre la storia e i valori religiosi e umani di una comunità diocesana”. E parte, come è giusto, dall’esame del territorio che, come sappiamo, è un lembo di terra dalle vicende complesse e tormentate come la sua conformazione: che comprende parte delle valli del Marecchia, del Conca e del Foglia, divise e contese per secoli dagli interessi sempre discordanti di famiglie grandi e potenti (i Carpegna, i Malatesti, i Montefeltro e i Della Rovere, gli Oliva). Si tratta di un territorio sostanzialmente povero e isolato, che solo grazie all’antica giurisdizione ecclesiastica ha mantenuto una certa qual compattezza, una sua unità culturale.
L’autore si propone di evidenziare «il sacro ed il religioso» del territorio percorrendo le vicende dell’architettura sacra e dell’organizzazione ecclesiastica nei suoi passaggi dal reticolo delle pievi a quello delle parrocchie e al richiamo all’unità dovuto alla riforma cattolica, poco curandosi della peculiare storia politica, economica e civile e ricercando piuttosto elementi di un comune linguaggio religioso e di espressività del culto locale.
Per quanto riguarda il Museo, nel volume esso è solo parzialmente illustrato. Per ora espone solo una parte delle opere raccolte (ma un’altra parte, riguardante il territorio di San Leo, è esposta nel bel Museo d’arte sacra di San Leo), organizzate secondo “un criterio di aggregazione per tematiche religiose e di servizio alla liturgia” (cioè per argomenti): un criterio atemporale, che riunisce le immagini dei santi, i ritratti dei Vescovi diocesani, i paramenti, i candelieri, gli ex-voto, le campane e via dicendo. Nel volume vengono presentati esempi di tali aggregazioni, accompagnate da alcuni passi di un testo famoso di san Carlo Borromeo indirizzato alla chiesa milanese, e dal programma di un futuro sito Web; e si fa presente che la schedatura scientifica del materiale non è ancora conclusa, forse per giustificare le lacune dell’apparato didascalico, che non dà notizia nemmeno della provenienza delle opere.
D’altra parte anche l’allestimento del museo reale sembra ancora parziale e provvisorio, con ingenuità che fanno sorridere (per esempio la stanza detta del «Capitolo», con i ritratti dei Vescovi appoggiati ciascuno su una poltrona, come se si trattasse di uomini politici che non vogliono lasciare la poltrona mai, neanche da morti), ma anche con passaggi e parti suggestive e rispettose della vecchia costruzione ristrutturata. Un museo in fieri, dunque, ma da vedere, e subito, o almeno appena sarà primavera.
Pier Giorgio Pasini