La sua popolarità lo ha fatto entrare nel gotha della museologia occidentale, quella National Gallery di Londra che nel 1857 acquistò un suo dipinto per 13.650 sterline (circa un milione e mezzo di euro odierni), cifra esorbitante per l’epoca tanto che fu oggetto di interrogazioni parlamentari alla Camera dei Comuni. Ma La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro fu considerata dall’eminente critico d’arte John Ruskin come “la più importante opera di Paolo Veronese del mondo” e per questo meritevole di un simile esborso. Il pittore della Repubblica di Venezia, nato Paolo Caliari (detto il Veronese), insieme a Tiziano e a Tintoretto forma la triade dei maestri tardo-cinquecenteschi. Apprezzati in tutto il mondo, essi posero le basi per la successiva esperienza barocca secentesca, da Caravaggio a Rubens; e alcune loro intuizioni hanno permeato la storia dell’arte fino al Settecento di Tiepolo.
Lo storico dell’arte Giovanni Carlo Federico Villa (nella foto), curatore di alcune delle più recenti mostre delle Scuderie del Quirinale, ha raccontato a Rimini – all’interno del ciclo di incontri “I Maestri e il Tempo” promosso dalla Fondazione Carim e curato da Alessandro Giovanardi – il percorso del pittore manierista che, tra suggestioni e illusioni ottiche, ha trovato compimento proprio a Rimini nella pala de Il martirio di San Giuliano custodito nella chiesa del Borgo omonimo.
Paolo Veronese era il principale esponente della riproposizione del classicismo nella pittura. “Aveva una straordinaria capacità di rappresentare il sacro attraverso la sontuosità – sostiene l’esperto –. Lo si nota nelle architetture classiche palladiane che imprigionano i protagonisti delle sue scene. >La cena in Emmaus (1560) conservata al Louvre si impose come quanto di più diverso venne visto fino ad allora e dopo di allora (erano gli anni del Concilio di Trento). La narrazione del quadro rispetta quella medievale, ma attorno ai protagonisti trova posto la borghesia veneziana con tanto di giovinette intente a giocare coi loro cagnolini”. La scena è luminosa come accade in tutte le opere di Veronese, caratterizzate da “colori chiari, sinceri e complementari che si sposano gli uni con gli altri (cento anni dopo, tutto pioverà nel buio con Caravaggio), tant’è che in seguito si parlerà di una sua corrente di ‘chiaristi’ da contrapporsi agli ‘scuristi’ che seguiranno Tiziano. Con questo stile egli esprime tutta la gioia della narrazione e contribuisce a una stagione artistica che nessuno saprà più emulare per vivacità fino all’Impressionismo ottocentesco”. Scendendo nel dettaglio,“possiamo quasi toccare la forza del tessuto degli abiti che raffigura”. Immagini, queste, che lo porteranno ad arredare il prestigioso Palazzo Ducale di Venezia insieme ai rivali Tiziano e Tintoretto.
Nella chiesa di San Sebastiano, a Venezia, il Veronese costruisce in vent’anni tutto il suo linguaggio.“Con la sua capacità di raccontare attraverso gli scorci, la luce e il controluce (come il gioco di riflessi su di un’armatura metallica che mette in evidenza una pennellata rapida e sicura), la sua pittura si fa sempre più tonale. Il colore diventa monumentale ed è ciò che andarono poi a ricercare e a ‘rubare’ i vari Rubens e Velasquez”. Paolo Veronese diede il colore anche agli interni di una villa del grande Andrea Palladio, l’architetto rinascimentale italiano più imitato al mondo, sui cui dettami stilistici verranno realizzate opere come la Casa Bianca di Washington. E proprio nell’edificio palladiano che più le assomiglia, la Villa di Maser, il Veronese mise in scena la sua opera più suggestiva. “Attraverso una serie di illusioni ottiche, dipinge sulle pareti paesaggi naturali, grandi vedute prospettiche alla romana dove interno ed esterno si alternano, dove architetture interne vengono simulate. Attraverso gli sfondati delle grandi finestre dipinte – prosegue Villa –, il Veronese dimostra una capacità di coinvolgimento e di creare un mondo nuovo, di immaginazione, che arriva a livelli inusitati. Questa casa dei piaceri e dei rapporti con la natura rende vere le parole usate per lui dallo scrittore secentesco Marco Boschini che lo definì: tesoriere dell’arte e dei colori”.
Una parentesi tragicomica per Caliari si verificò quando venne sottoposto a processo dal Tribunale dell’Inquisizione per aver ritratto in un’Ultima Cena quelli che l’istituzione definì come “servi a cui esce il sangue dal naso, buffoni, ubriachi, nani e tedeschi”. Erano gli anni della Controriforma e i protestanti del nord non erano visti di buon occhio. Il maestro si difese dicendo che i pittori si prendono le stesse libertà dei poeti e dei matti, ma il tribunale lo costrinse ad apportare alcune modifiche e a mutare il soggetto dell’opera da Ultima Cena a Cena a casa di Levi (Galleria dell’Accademia, Venezia).
La fine del percorso pittorico di Paolo Veronese trova spazio proprio a Rimini nella chiesa di San Giuliano, importante luogo di culto sulla Via Emilia già dall’XI secolo. Il martirio di San Giuliano è una delle sue ultime opere e “ripropone la celebre invenzione del racconto del sotto-in-su in cui la narrazione parte dalla parte inferiore del quadro per risalire in alto con immagini in contrapposto che si rispondono e riflettono”. In cielo si trova la Madonna circondata dai santi, mentre al di sotto avviene il martirio del Santo che, portato dalla Dalmazia, viene costretto inutilmente dai soldati a rinnegare la propria fede. Data la sua riluttanza, viene messo in un sacco coi serpenti e buttato in mare. “L’opera riminese è la conferma di tutta la capacità del Veronese di raccontare attraverso i colori”.
Mirco Paganelli