Al Festival della Valled’Itria la prima esecuzione in epoca moderna di Margherita d’Anjou è ambientata nel mondo della moda
MARTINA FRANCA, 2 agosto 2017 – Trasformare la “guerra delle due rose” (che nel XV secolo insanguinò l’Inghilterra per trent’anni), posta alla radice della Margherita d’Anjou, in uno scontro ambientato ai giorni nostri, che si consuma fra le sfilate e una spa, è un’operazione azzardata. La sproporzione tra due contesti così differenti (da un lato un feroce conflitto costato migliaia di vittime inglesi, dall’altro il mondo della moda, un po’ baraccone e ridicolo), senza punti di contatto fra loro, ha reso necessaria una riscrittura visiva pressoché radicale della vicenda, dove purtroppo i bei versi del libretto di Felice Romani risuonano del tutto estranei. Il regista Alessandro Talevi riconduce prosaicamente gli scontri fra i Lancaster e gli York per la conquista del potere in Inghilterra a una lotta fra la designer Margherita e una fazione che sembra occhieggiare sul piano visuale a Vivienne Westwood, la stilista che sdoganò il punk. In mezzo, il duca di Glocester pare il magnate del lusso francese Bernard Arnault e il personaggio comico Michele viene trasformato nella grottesca parodia di Karl Lagerfeld. Un processo per accumulo che nell’insieme risulta farraginoso e non sempre facile da seguire per lo spettatore, tanto più che quest’opera giovanile di Meyerbeer (1820) è stata proposta al Festival della Valle d’Itria in prima esecuzione moderna italiana: non ci si poteva pertanto appellare a conoscenze pregresse del pubblico.
Classificata come opera semiseria, Margherita d’Anjou – sospesa fra rossinismi canori e sperimentazioni orchestrali – non appare del tutto risolta sul piano musicale e, ad esempio quando il soprano duetta con il violino in una reminiscenza paganiniana, la sensazione è che la scrittura vocale non riesca a tenere il passo con quella dello strumento. Ci sono però molti spunti felici, soprattutto quando Meyerbeer, piuttosto che guardare alla tradizione vocale italiana (sono gli anni in cui trionfava il belcanto), fa appello alla civiltà strumentale tedesca in cui si colgono già fermenti romantici: alcune delle sue intuizioni, in seguito, verranno raccolte e sviluppate in modo ancor più efficace da altri compositori, dal contemporaneo Rossini fino a Donizetti.
Nella sua lettura musicale, Fabio Luisi riesce a far avvertire questa doppia anima, che valorizza il carattere sperimentale dell’opera. Il direttore ottiene dagli strumentisti dell’Orchestra Internazionale d’Italia sonorità nitide e precise, mantenendo però fin troppo distacco, senza sbilanciarsi sul versante drammatico né su quello comico: forse l’unica scelta possibile rispetto a una visualità così invasiva.
Fortunatamente l’esecuzione poteva contare su un cast ben assortito e con voci all’altezza dell’impegnativa prova. A dispetto del titolo, la protagonista femminile – almeno in termini di presenza in palcoscenico – è Isaura, moglie negletta di Lavarenne, attratto invece dalla regina. Il mezzosoprano Gaia Petrone ha affrontato con grande determinazione il suo ruolo, sfoggiando voce ben timbrata e pieno controllo delle colorature, con cui disegna una coraggiosa figura femminile, disposta a combattere per riconquistare il proprio marito. Anche il soprano Giulia De Blasis, seppure senza una voce troppo importante, ha dimostrato controllo e correttezza musicale in un ruolo psicologicamente meno sfaccettato come quello di Margherita. Un’autentica scoperta è stato il tenore russo Anton Rositskiy, dotato di considerevoli mezzi vocali, che gli hanno consentito di affrontare l’impervia scrittura di Lavarenne con scioltezza e grande facilità anche nel registro più acuto, rivelandosi un interprete dalle caratteristiche ideali per tanti ruoli rossiniani. Nei panni comici di Michele, il baritono Marco Filippo Romano si è distinto per un fraseggio sempre ben articolato e la sicurezza dell’emissione: e se qualche volta dava l’impressione di forzare, bisogna tener conto di quanto la regia di Talevi lo costringesse a una raffigurazione tutta sopra le righe. Dopo un avvio un po’ faticoso, il basso Laurence Meikle, cui il regista impone un’improbabile cresta rossa, ha trovato la propria dimensione in un ruolo di malvagio in preda a crisi di coscienza. Buono il contributo del coro proveniente dal Teatro Municipale di Piacenza, preparato come sempre da Corrado Casati, e spesso in primissimo piano sul palcoscenico del Palazzo Ducale per l’impegno attoriale. Da segnalare poi, la presenza muta del piccolo Arcangelo Carbotti, nei panni del figlio della protagonista: resta impressa la sua tenera immagine mentre gioca con le Barbie, facendo presagire – senza bisogno di scomodare Freud – un futuro segnato da profonde crisi d’identità di genere.
Giulia Vannoni