Che lavoro fa il giornalista? Racconta? Filtra? Distorce? Tagliuzza? Senza avere le pretese di sentenziare su un mestiere che scappa alle classificazioni e alle determinazioni, diciamo che il giornalista si pone tra i fatti e i suoi lettori e racconta, filtra, distorce e tagliuzza. Fa tutte quelle cose per le quali viene considerato ‘dall’uomo della strada’ un avvoltoio, ma che sono azioni inevitabili per fare ciò che fa. Il discrimine è nell’onestà con cui si cerca di mostrare al mondo un punto di vista.
Sì, perchè si tratta di un punto di vista. Per quanto possa essere intellettualmente onesto, scrupoloso nel verificare le fonti, preciso nel riportare ciò che i suoi occhi hanno visto, si tratterà sempre di un punto di vista, ritagliato in un pezzetto di realtà con la quale è entrato a contatto. La parola d’ordine pare essere ‘parzialità’, intesa come ‘pezzo’. Pezzo di realtà che si vede, parte di storia che si racconta, frammento di mondo illuminato. È questa la realtà del giornalismo, realtà che viene ben mostrata nelle testimonianze raccolte da Letizia Magnani nel libro “C’era una volta la guerra…e chi la raccontava. Da Iraq a Iraq: storia di un giornalismo difficile”, Edizioni Associate, presentato per la prima volta al Premio Ilaria Alpi, lo scorso 7 giugno.
Qui il lavoro diventa più difficile. perchè è lo scenario a farsi più complesso. Siamo infatti, nei teatri di guerra, che hanno fatto la storia del mondo negli ultimi 20 anni. “Da Iraq a Iraq” scriverà la Magnani. Da quel primo conflitto nel Golfo all’11 settembre 2001, da quando cioè la guerra è pressoché stata sempre presente nelle nostre esistenze. “Ho ascoltato le storie di quaranta giornalisti che sono entrati a contatto con una guerra, vivendola per poi raccontarla. – spiega l’autrice – Sempre emerge una cosa. Non è semplice gestire il rapporto tra potere, giornalista, scenario e lettore”.
Non è un caso che intellettuali e teorici della comunicazione continuano a interrogarsi su una questione cruciale. “Il racconto della guerra non si limita forse a essere il racconto di ciò che i Governi vogliono far sapere al mondo, di quella guerra?”.
“Questo è un nodo fondamentale. Il vero giornalista, esperto di politica estera, che si sposta dal suo paese per andare in uno scenario difficile e raccontare ciò che succede ne è consapevole. Ma esiste di fondo un’onestà. In guerra è più difficile arrivare alla realtà. Gli embedded (letteralmente ‘a letto con il potere’ sono i giornalisti che si muovono a seguito degli eserciti di un paese) dicono «vi racconto ciò che mi fanno vedere». Gli unilateral (giornalisti che si muovono da soli) dicono «vi racconto ciò che riesco a vedere». Come vedi esiste un’onestà di fondo che lega il giornalista al suo lettore”.
Ma quello che abbiamo visto e saputo è realmente quello che è accaduto?
“Io posso dire che tra i racconti degli embedded e quelli degli unilateral si ha avuto una buona copertura mediatica dei conflitti”.
Nei due anni che Letizia ha trascorso tra le redazioni delle televisioni e delle testate giornalistiche nazionali più importanti, ha potuto constatare che a muovere tutto è una forte curiosità, sensibilità e umanità. Caratteristiche che dovrebbe avere un buon giornalista, ma che in guerra devono amplificarsi all’ennesima potenza. “Poi posso dire che spulciando dentro la valigia di questi protagonisti vi ho trovato delle costanti. I libri, naturalmente cui si associa tutto uno studio preliminare sulla politica dei paesi che si vanno a raccontare. E poi prevale l’istinto di sopravvivenza. Tutti portano una pasticca anticoagulante, delle medicine per sopportare eventuali attacchi asmatici e della Simmenthal”.
Il libro, è un affascinante e completo spaccato di una realtà poco nota. Tra mito, storia e leggenda si racconta attentamente un mondo, ma si lascia parlare quel mondo a parole proprie, attraverso chi si è fatto ore e ore di viaggio su un aereo militare con una borsa pesante di libri, taccuini e l’immancabile Simmenthal.
Angela De Rubeis