Qual è la grammatica della carità, quale emerge da questi 40 anni di vita della Caritas riminese? Tento di declinarla in rapida sequenza.
Prima regola. I poveri al centro. I poveri, non basta essere pronti ad aiutarli. Occorre essere disposti, noi, a cambiare vita, a intrecciare relazioni nuove con loro. Per Gesù i poveri non erano masse anonime. Problemi da risolvere. “Funzioni” da utilizzare. Ma volti da guardare. Persone da incontrare. Fratelli da abbracciare. Nella scelta di Gesù di vivere povero e con i poveri c’è una costante: mai soltanto l’aiuto, ma sempre l’accoglienza. Non basta sapere chi è il povero e perché lo sia, né basta vederlo, né basta aiutarlo. Occorre che diventi davanti a me quello che è: una persona, con un volto preciso. Come un fratello.
Seconda regola. Il soggetto della carità è la comunità cristiana. La Caritas è lo strumento pastorale diocesano di educazione comunitaria alla carità. Pertanto la Caritas non è l’organo erogatore di aiuti, distributore di fondi, promotore di collette da dividere con/tra i poveri. È invece l’organo che aiuta l’organismo a realizzare una sua funzione vitale: la pratica dell’amore. È l’occhio che fa vedere i problemi antichi e nuovi. È l’orecchio che fa ascoltare il pianto di chi soffre e amplifica la voce di Dio che provoca al soccorso. Perciò occorre dire un no netto e deciso all’assistenzialismo. La Caritas non è una struttura impegnata a prestare servizi ai poveri. A questo punto va salutata con intima soddisfazione la Consulta della Carità, di prossima costituzione.
Terza regola. Riguarda il rapporto tra evangelizzazione e carità. La carità è la via privilegiata – la corsia preferenziale – dell’evangelizzazione. A tutti, specialmente ai poveri, la Chiesa deve la carità del Vangelo, ricordando che questa passa attraverso il vangelo della carità. Non è un gioco di parole. La carità non si identifica con l’attività caritativa. Non si tratta semplicemente di “fare” la carità, ma di viverla. In modo gratuito e trasparente. I gesti della carità fanno certamente parte dell’attività dei missionari cristiani: “cacciate i demoni, guarite i malati”. È parola del Signore. Ma quei gesti non sono – almeno direttamente – finalizzati alla missione.
Non ci si volge al povero per convertirlo e aggregarlo. Questo sarebbe proselitismo, non missione. Senza mai dimenticare che “è necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare dai poveri”. È parola di Francesco. Ma su questo punto dovremo tornare.
Quarta regola. Riguarda il rapporto tra carità e giustizia. La giustizia senza la carità è monca. La carità senza la giustizia è falsa. La carità contiene in se stessa l’esigenza della giustizia, la sostiene e la vivifica, impregnandola di gratuità. Questa ‘regola’ implica conseguenze dirompenti. La prima è che l’opzione preferenziale per i poveri non è qualcosa di opzionale o di puramente accessorio al cuore del Vangelo. Tenendo sempre ben presente un criterio imprescindibile: “fare parti tra uguali è somma giustizia; fare parti tra disuguali è somma ingiustizia” (don Milani). La seconda conseguenza riguarda l’impegno sociale e politico dei cristiani, ed è stata scolpita dal Vaticano II: “Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in serio pericolo la propria salvezza eterna”.
+ Francesco Lambiasi