Che il settore della pesca sia in crisi lo raccontiamo da tempo. Tutto cominciò nel 2008 quando il prezzo del barile di petrolio salì nel giro di pochi mesi da 25/30 a 100 dollari. I costi del carburante gravitarono enormemente e di conseguenza si andarono assottigliando i guadagni. Molte imbarcazioni storiche della marineria riminese chiusero i portelloni e discorso chiuso.
Molti altri invece hanno cercato di adattarsi non solo all’aumento dei costi ma anche al cambio del “mestiere” che si è ritrovato nel giro di un lustro a fare i conti con una legislazione europea che in molti vivono come ostile e calata dall’alto.
La pesca è cambiata dopo la crisi? I numeri dicono di si.
Negli ultimi 30 anni in Emilia Romagna il numero degli occupati è costantemente diminuito sino a toccare un -30%, il 4% delle imbarcazioni della regione hanno smesso di lavorare nel periodo compreso tra il 2009 e il 2014 (su circa 700 barche, oltre 200 fanno parte della flotta riminese). Molte altre si sono reciclate e sono diventate attività turistiche e ristorative, ma questo fenomeno ha poco toccato le nostre banchine, perché nel riminese tutto manca meno che l’offerta turistica ed enogastronomica. In poche parole: non c’era mercato. Cresce invece il mercato dell’acquicultura che ad oggi impiega il 51% dei pescatori presenti in Emilia Romagna e riscontra un aumento di imbarcazioni.
La crisi maggiore si è sentita nel settore della pesca a strascico, e qui ci ha messo lo zampino la Comunità Europea che ha introdotto una norma secondo la quale la pesca è interdetta entro le 3miglia dalla costa (oltre a inserire un altro tot di norme legate alla dimensione della maglia da pesca) senza considerare alcune specificità dei territori. Basti pensare che a Rimini i cosiddetti “uomini nudi” stanno proprio dentro le tre miglia (sotto la sabbia) e sono un prodotto che hanno sempre avuto una buona riuscita sul mercato. Tutt’un tratto è stato vietato e al mercato non si sono più visti.
Ma i problemi non sono solo da imputare ad una serie di norme. Appena una settimana fa Sergio Caselli, presidente di Legapesca Emilia-Romagna, riflettendo sullo stato della pesca della regione ha sollevato alcune questioni molto interessanti, come quella del rinnovamento dei lavoratori del settore, che non esiste. I pescatori che vanno in pensione non vengono rimpiazzati da giovani leve: “Se oggi la produzione è diminuita ed è calato il numero di addetti, occorre cercare di favorire alcuni progetti per concentrare l’offerta, dando vita a centri di lavorazione per far acquisire più valore al prodotto, imparando a gestire meglio le varie tipologie di pesca in crescita”. In effetti sui territori non esiste la presenza di istituti nautici o professionali che possano preparare una nuova generazione di lavoratori del mare; così come non è possibile, attualmente, applicare le norme dell’apprendistato al settore della pesca.
C’è poi chi si è reinventato, scegliendo soluzioni che utilizzano meno mezzi (e dalla qualità inferiore) e meno personale. È il caso di chi si è riciclato nel mondo della “piccola pesca costiera” che si pratica con attrezzi di posta (cestini, soprattutto). Oggi sulla porzione d’Adriatico della regione è la tipologia di pesca più praticata (stando al numero di imbarcazioni impiegate, poco meno di 250) perché è sottoposta a meno vincoli ed ha meno spese. Possiamo definirla la pesca del segno meno: barche meno grandi, meno personale, meno pesce pescato, meno inquinamento. Sarà la nuova frontiera della pesca nell’Adriatico? Sarà, ciò che è certo è che anche a Rimini si cominciano a vedere ex capitani di grandi pescherecci alla guida di piccole barchette dal sapore retrò.
Angela De Rubeis