L’infertilità è un tema complesso, che può essere analizzato da molteplici punti di vista. Probabilmente, però, il più incisivo è quello della testimonianza diretta, perché l’infertilità è una questione umana, prima che scientifica. Attenzione, la scienza è fondamentale e questo non va messo in dubbio. Ma nessun dato, nessuno studio può permettere di capire la complessità di questo tema come il racconto diretto di una madre che, per anni, ha dovuto lottare contro una barriera apparentemente senza causa e senza soluzione.
Marta (nome di fantasia) è la madre di due splendidi bambini. La sua gioia è talmente intensa che niente farebbe sospettare che, in circa 10 anni, ha vissuto ben otto gravidanze. Il suo è un racconto di dolore, lotta e speranza, che mette in luce il valore fondamentale della coppia e alcuni difetti, gravi, di un sistema sanitario che in questi casi può non rivelarsi un alleato.
Marta, com’è iniziato il suo difficile percorso?
“Tutto è cominciato nel 2009 quando, sposata da poco, io e mio marito volevamo realizzare il desiderio di avere un bambino. Sono rimasta subito incinta, ma arrivata intorno alla settima-ottava settimana ho avuto una grossa emorragia e ho perso il bambino. Una cosa che può accadere, certo, ma che nel mio caso ha segnato l’inizio di una lunga serie di episodi simili, che in alcuni casi hanno addirittura messo in pericolo la mia stessa vita. Con un’eccezione: la mia seconda gravidanza, nel 2010”.
Com’è andata?
“Nel 2010 ho dato alla luce il mio primo bambino. Però, purtroppo, anche in questo caso sono sopravvenute delle complicazioni”.
Cos’è successo?
“Il bambino è nato prematuramente, a circa 35 settimane di gestazione, a causa di una rottura pre-termine del sacco amniotico, venendo al mondo in una condizione di forte ritardo di crescita: il suo peso, al momento della nascita, superava di poco il chilo e mezzo. Oggi ha 8 anni, è forte e sta bene, ma è dovuto passare attraverso un percorso di terapia intensiva durato più due mesi per essere in piena salute”.
Un parto così complicato, che ha seguito una gravidanza che non è giunta al termine, ha fatto suonare qualche allarme?
“In realtà, in quel momento, abbiamo pensato a una casualità. Ma qualcosa ha iniziato a cambiare due anni dopo, nel 2012, quando abbiamo provato ad avere il nostro secondo figlio”.
Ci racconti.
“Durante la gravidanza mi sono dovuta recare al Pronto Soccorso in seguito a fortissimi dolori addominali. E, da lì, sono stata trasportata d’urgenza in un ospedale più idoneo, perché mi era stata diagnosticata una gravidanza extra uterina tubarica. A quel punto mi hanno sottoposto ad intervento chirurgico per asportarmi la tuba, ponendo fine alla gravidanza. Anche in questo caso i medici, nello specifico la mia ginecologa, mi ha tranquillizzato dicendomi che anche questo episodio rappresentava una casualità e che, a seguito dell’intervento riuscito, in pochi mesi avrei potuto di nuovo provare a concepire un bambino. E così è stato: dopo alcuni mesi, nonostante la tuba in meno, sono rimasta incinta. Purtroppo, però, anche questa volta la gravidanza si è interrotta a causa di un aborto interno a cui è dovuto seguire un raschiamento. In tutto ciò, ed è fondamentale aggiungerlo, ogni volta che io e mio marito avevamo rapporti io avvertivo dolore, cui solitamente seguivano forti cistiti. E, in un caso, una cistite aveva raggiunto le vie alte provocando una pielonefrite, una malattia infiammatoria dei reni, che mi ha spinto a rivolgermi a un nefrologo”.
E come era stata affrontata questa situazione?
“Il nefrologo, dopo i dovuti controlli, mi ha rassicurato dicendomi che a livello organico andava tutto bene e che per le donne può essere un disturbo normale, aggiungendo che addirittura alcune donne possono conviverci per tutta la vita senza conseguenze. Insomma, nonostante gli evidenti episodi che potevano indicare che qualcosa non andava, continuavamo a sentirci dire che erano tutti eventi scollegati, e che tutti rappresentavano delle casualità”.
Difficile, però, non pensare che ci potesse essere una qualche correlazione tra tutti questi episodi.
“Esatto, e infatti in quel periodo ho cominciato a sospettare che tutto poteva essere correlato, cominciavo a non credere più alla casualità. Così ci siamo recati all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, dove abbiamo eseguito, sia io sia mio marito, tutti gli esami per accertare l’eventuale causa che spiegasse una situazione di poliabortività. Ma dagli esami non è emerso nulla. E quindi di nuovo tutto da capo: mi reco nuovamente dalla mia ginecologa che mi dice che, semplicemente, devo riprovarci. E noi, forse ingenuamente o stupidamente, ci siamo fidati ancora e ci abbiamo riprovato”.
Con quali risultati?
“Rimango subito incinta e, anche questa volta, sorgono problemi durante la gravidanza. Ancora un caso di gravidanza extra uterina, questa volta di tipo angolare: l’embrione si era annidato nella porzione di cicatrice che si era creata in seguito all’intervento di asportazione della tuba. Una situazione che mi esponeva a un grande rischio: l’unico modo per salvarmi la vita era quella di asportarmi anche la porzione di utero interessata, con un intervento chirurgico molto complicato, per il quale rischiavo di non risvegliarmi più. E così ho fatto. A questo punto gli episodi erano troppi per non pensare a una correlazione, e anche a livello fisico, alla luce di ben due amputazioni, cominciava a essere una situazione complessa”.
E come vi siete mossi?
“Ci siamo rivolti al Centro di Poliabortività di Roma, continuando il nostro viaggio per l’Italia, sempre più difficile a livello fisico e per la presenza di un bambino piccolo. Abbiamo fatto diversi controlli, ma nessuno di questi presentava una causa che potesse spiegarci chiaramente ciò che ci stava accadendo. E, in tutto questo, mio marito è sempre stato messo un po’ da parte. La dimostrazione più chiara: in tutto questo percorso è stato chiesto per lui solo uno spermiogramma (qualità degli spermatozoi), e mai una spermiocoltura (analisi per rilevare eventuali infezioni). Su di lui, dunque, non si è mai indagato a 360 gradi”.
Per quale motivo?
“Siccome lo spermiogramma dava buoni risultati, e io ero rimasta diverse volte incinta, i medici erano convinti che il problema fosse legato esclusivamente a me e non a mio marito. A quel punto, dunque, a Roma mi hanno consigliato di sottopormi a un ciclo di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita), in modo da poter bypassare quello che a quel punto sembrava essere la causa più probabile: la mia età, perché in quel momento avevo 38 anni e la mia qualità ovocitaria aveva subìto un calo nel corso degli anni”.
E così inizia l’esperienza della PMA.
“Una volta accettato, dunque, veniamo indirizzati a Firenze in un centro di PMA, un’altra città da aggiungere a questo viaggio. Mi sono sottoposta alla procedura ma anche qui nessun risultato. A quel punto, ci siamo resi conto di quale poteva essere il problema. Parallelamente e in modo autonomo, durante quegli anni mi sono sottoposta a esami per rilevare eventuali infezioni batteriche, e sono risultata positiva all’Ureaplasma urealyticum, un batterio che può causare infezioni genitali, anche asintomatiche. E sono stata curata con antibiotici, ma qui nasce il problema: siccome tutti i medici erano convinti che il problema fosse esclusivamente mio, e siccome non è stata mai chiesta una spermiocoltura per mio marito, non si è mai considerata l’ipotesi che fosse proprio lui, dopo averla contratta da me, a trasmettermela, anche se ero già stata curata, ad ogni tentativo di concepimento”.
E quindi vi siete mossi in questa direzione.
“Sì, poiché nessuno considerava l’ipotesi infettiva, attraverso la rete, nello specifico alcuni forum medici, siamo venuti a conoscenza del dottor Pasquale Scarano di Rimini, e del suo approccio alle infertilità, basato sulla ricerca preliminare di eventuali infezioni batteriche asintomatiche. E così ci siamo rivolti a lui”.
E com’è andata?
“Il dottor Scarano ci ha subito detto di eseguire una spermiocoltura e ha subito affrontato il problema da quel punto di vista, il tutto sostenendoci a livello umano in un modo che non avevamo ancora visto in tutto questo percorso. Abbiamo seguito la sua terapia e, al terzo mese post-cura, sono rimasta incinta naturalmente. La gravidanza è andata avanti senza problemi e ho messo al mondo la mia bambina, normopeso, a 39 settimane, quando avevo circa 40 anni”.
Perché, allora, non è stato possibile arrivare prima a questo risultato? Quali sono, secondo lei, i difetti del sistema sanitario che glielo hanno impedito?
“Durante tutto il percorso, ci siamo accorti che non c’era attenzione per la coppia nel suo insieme, nella sua totalità indivisibile. Si è indagato in una sola direzione, pensando che il problema potesse essere solo di una parte della coppia. La PMA, inoltre, è una tecnica che procede in modo standardizzato, trattando in modo troppo simile situazioni diverse tra loro. Per fortuna io e mio marito siamo talmente uniti che in tutto questo la coppia non si è indebolita. Ho visto, da parte sua, amore puro mentre facevo le iniezioni ed eseguivo gli esami. A dimostrazione di quella fondamentale inscindibilità della coppia che, però, non è esistita nell’approccio medico”.