Con la farsa Il giovedì grasso o Il nuovo Pourceaugnac, al Teatro delle Muse di Ancona è andato in scena un irresistibile Donizetti comico
ANCONA, 29 agosto 2021 – Non deve trarre in inganno la parola ‘farsa’ applicata al Giovedì grasso di Donizetti: se nei primi decenni dell’ottocento il genere dell’operina in un atto – organizzata in arie, duetti e pezzi d’insieme, uniti da dialoghi parlati – era ormai giunto al capolinea, qui si trasfigura e assume la brillante leggerezza di una commedia. Il merito è dell’arguto libretto di Domenico Gilardoni, tratto da Encore un Pourceaugnac (folie vaudeville di Scribe, a sua volta ispirato a Monsieur de Pourceaugnac di Molière), e ancor più della musica di Donizetti e del suo talento d’innovatore, che azzarda soluzioni del tutto sperimentali e di straordinaria resa in palcoscenico.
Questo miracolo si ripete anche nel semisconosciuto Il giovedì grasso o Il nuovo Pourceaugnac, attraverso un quintetto che si trova proprio all’inizio – e dove all’epoca nessun compositore l’avrebbe mai collocato – o con un duetto fra tenore e soprano che ha già caratteristiche romantiche e appare, dunque, spiazzante in un contesto comico. Per quest’opera, oltre tutto, Donizetti aveva potuto contare su circostanze favorevoli: alla première (Napoli, 1829) gli interpreti dei due ruoli antagonistici sarebbero stati il tenore Giovanni Battista Rubini e il basso Luigi Lablache, fra le massime star dell’epoca.
Nel nuovo allestimento proposto in occasione di “Kammeroper alle Muse” tutte le carte sono state ben giocate sul versante musicale. Il direttore Sebastiano Rolli è stato capace di ottenere un’apprezzabile leggerezza dall’Orchestra Sinfonica Rossini, imprimendo all’esecuzione un andamento sempre scorrevole, che ha facilitato il buon ritmo del palcoscenico. E la compagnia di canto, ben assortita, non si è lasciata sfuggire l’occasione, a cominciare naturalmente da David Astorga e Simone Alberghini, che nei ruoli creati per Rubini e Lablache si sono imposti come veri e propri mattatori. Il primo interpreta Ernesto, un provinciale dai modi semplici, ma che tutti ritengono un ingenuo da sbeffeggiare: si rivelerà invece assai avveduto, riuscendo a sventare ogni tentativo d’inganno, ribaltando tutte le macchinazioni ordite ai suoi danni. Così, a essere gabbato sarà proprio il parigino e mondanissimo Sigismondo, che nonostante un travestimento giustificato dalla ricorrenza del carnevale non riesce a raggiungere il suo obiettivo: anzi, ne uscirà scornato. Astorga ha aggredito con sicurezza la scrittura di Ernesto anche nelle ascese più acute, riuscendo attraverso il canto a disegnare un personaggio simpatico e accattivante. Alberghini imprime esplosiva comicità a Sigismondo, destreggiandosi con grande disinvoltura pure nei passaggi in napoletano. Nell’esecuzione al Teatro delle Muse, fra l’altro, il suo compito era reso più difficile da un’aria aggiuntiva – e mai eseguita prima – scritta per la ripresa del 1830, quando Lablache fu sostituito da Tamburini. Le parole sono probabilmente dello stesso Donizetti, come si può intuire dai richiami ai dottori e ai rimedi farmaceutici: da sempre un chiodo fisso per il compositore. Gli altri personaggi ruotano attorno ai due protagonisti. Fra le donne, precisa e sicura nelle colorature il soprano Carolina Lippo, promessa sposa a Ernesto ma in realtà innamorata di un altro. Disinvolta e spigliata l’avvenente mezzosoprano Nutza Zakaidze, moglie di Sigismondo; simpatica nella parte dell’ingenua cameriera che, inconsapevolmente, svela all’ignaro Ernesto tutte le macchinazioni, il soprano Chiara Notarnicola. Fra gli uomini una menzione speciale spetta a Giorgi Manoshvili, giovane basso georgiano, che – vestito e truccato come un clone di Samuel Ramey – interpreta l’austero colonnello.
Alla regia non resta che assecondare l’andamento musicale, tenuto conto anche del poco spazio a disposizione: gli orchestrali erano collocati in palcoscenico e separati da quinte dalla zona dove si svolge l’azione. Il regista Francesco Bellotto immagina una hall di un albergo in cui si aggirano i personaggi, agghindati in foggia ottocentesca; le scene sono di Lucio Diana, mentre ha collaborato ai costumi pure Stefania Cempini. Si strizza l’occhio all’avanspettacolo: l’originaria destinazione napoletana lo giustifica, così come la definizione di ‘farsa’, benché Il giovedì grasso se ne sia ormai emancipato. Termine di confronto diventa allora il teatro di Scarpetta, poi tramandatoci dai suoi tanti straordinari successori. O, per lo meno, quello che è giunto fino a noi, perché fissato sullo schermo.
Giulia Vannoni