La Juive capolavoro di Halévy ha inaugurato la stagione del Regio di Torino con Mariangela Sicilia e Gregory Kunde
TORINO, 21 settembre 2023 – È uno dei pilastri del teatro d’opera dell’ottocento, un punto di svolta fra la grande stagione belcantistica che la precede e i nuovi orizzonti che Verdi dischiuderà di lì a poco: eppure La Juive (1835) non è mai entrata stabilmente in repertorio. Certo, mettere in scena un grand-opéra – con le sue proporzioni gigantesche e l’elevato numero di personaggi – rappresenta un impegno produttivo imponente, ma si tratta di una motivazione che da sola non convince troppo (e Wagner, allora?). È probabile invece sia dovuto a quella forma di ostracismo, più o meno velato, che da sempre ha scandito il destino dei compositori ebrei: una sorte che spetterà pure al quasi contemporaneo Meyerbeer.
Quando si ha l’occasione di ascoltare La Juive, l’opera più nota di Fromental Halévy, non si finisce mai di apprezzarla: per la modernità del libretto di Eugène Scribe, capace di tenere con il fiato sospeso, e l’originalità di soluzioni drammatiche suscitate da una musica sempre coinvolgente, ma soprattutto divenuta punto di riferimento per gli autori successivi. Impossibile infatti non pensare al fulminante finale del Trovatore, perché ad accomunarlo alla Juive è una inquietante agnizione: come nel capolavoro verdiano il Conte di Luna scopre di aver mandato a morte suo fratello, qui l’ebrea Rachel viene gettata nell’olio bollente (il supplizio riservato ai suoi correligionari), giustiziata dal proprio inconsapevole genitore biologico, cristiano; laddove il rapporto tra la protagonista e la sua rivale invece rinvia, inequivocabilmente, a quello delineato da Bellini nel duetto tra Norma e Adalgisa. Pazienza, poi, se a coinvolgere meno è l’atto centrale, il terzo, strettamente legato alle convenzioni del grand-opéra (tanto più se, come nello spettacolo di Torino, la regia non riesce a trovare soluzioni efficaci).
Bisogna essere dunque grati al Teatro Regio che ha scelto proprio L’Ebrea, come un tempo veniva declinata nelle versioni italiane, per inaugurare la stagione lirica. E ha fatto le cose in grande, affidandosi a un cast di ottimo livello e alla bacchetta di Daniel Oren, originario di Tel Aviv e dunque assai sensibile alla tematiche dei conflitti religiosi. L’orchestra, non troppo idiomatica nel preludio, lo ha poi puntualmente assecondato, in una lettura musicale di buon passo narrativo e sempre attenta alle esigenze del canto. Nell’insieme molto ben valorizzati anche gli interventi del coro (preparato da Ulisse Trabacchin) cui spettano pagine tra le più suggestive, in grado di evocare i grandi corali bachiani, così come di echeggiare il Mosè di Rossini.
Interpreti quasi tutti di gran pregio. Mariangela Sicilia, l’ebrea Rachel innamorata di un cristiano (ma ignara della sua vera identità) ha saputo disegnare, grazie all’ottimo dominio dei passaggi belcantistici e a un fraseggio sempre molto penetrante, una fanciulla appassionata nell’amore fisico non meno che in quello filiale. Nei panni del padre – il personaggio più potente di tutta l’opera – un grande tenore come Gregory Kunde, al suo debutto in questo impegnativo ruolo, è stato capace d’imprimere un caleidoscopio di sfumature all’orafo ebreo Éléazar. L’attuale voce, inevitabilmente non più freschissima, del settantenne catante americano non è certo un ostacolo per disegnare la tormentata figura dell’anziano genitore: squillo e sonorità vocale rimangono integri, così come resta immutata, se non addirittura accresciuta, la classe stilistico-interpretativa. Nella grande aria Rachel, quand du Seigneur ha sfoderato una gamma di sfumature davvero inesauribile, che ha meritato una festosa ovazione del pubblico; mentre applausi altrettanto fragorosi hanno accompagnato la successiva, micidiale – ma perfettamente dominata – cabaletta.
Martina Russomanno, il secondo soprano, si è trovata sempre a suo agio nelle colorature della principessa Eudoxie, rivale della protagonista, risolvendole con scioltezza. Anche il secondo tenore, il rumeno Ioan Hotea, nei panni del principe Léopold conteso dalle due donne, ha saputo imporsi in una scrittura caratterizzata da continue ascese in acuto, sempre affrontate con notevole sicurezza. Il basso Riccardo Zanellato, interprete del cardinale Brogni, ruolo non nuovo per lui, lo ha ulteriormente approfondito disegnando un uomo dilaniato dai sensi di colpa e, proprio per questo, animato da un autentico desiderio di riconciliazione con gli ebrei. Da ricordare pure i due baritoni: Gordon Bintner, l’inflessibile prevosto Ruggiero, e Daniele Terenzi, che è riuscito a imprimere con voce morbida una precisa fisionomia al piccolo personaggio di Albert.
A firmare questo nuovo allestimento Stefano Poda che, come sempre, sigla regia, scene, costumi, luci e persino coreografie. Concepisce così una visionaria ambientazione senza tempo – la drammatica vicenda è ambienta nel giorno di Pasqua del 1414 – con un ricorso eccessivo a simboli: croci, scheletri disposti sul fondale o appesi a testa in giù per ricordare i misfatti compiuti dai cristiani ai danni degli ebrei. Sono sottolineature spesso didascaliche, mentre l’utilizzo di pastrani tutti della stessa foggia e altri dettagli discutibili, come il bacio di Giuda o trasformare Eudoxie in una dominatrice del sesso, fanno perdere di vista l’andamento narrativo di una vicenda che non può essere data per scontata. Con il rischio per il pubblico – concentrato nel decodificare le immagini – di perdere di vista le vere domande poste da quest’opera.
Giulia Vannoni