Malattia cronica ugale a sofferenza e morte?
Quale ruolo può giocare l’esperienza religiosa e quale rapporto può avere con i nuovi orizzonti della ricerca scientifica e della terapia del dolore?
“Tutte le persone che hanno problemi cronici di malattie e dolore presentano le stesse caratteristiche: non vivono più. Ritengo che lasciare un paziente nella cronicità del dolore equivale ad abbandonarlo”.
È questa la posizione del dottor William Raffaeli, direttore Unità Operativa Terapia Antalgica Cure Palliative, che ha ospitato nel padiglione di via Ovidio, all’interno del suo reparto dell’Ospedale Infermi di Rimini, l’incontro su “La tradizione religiosa e l’innovazione scientifica sul dolore” nell’ambito delle conversazioni organizzate dalla Fondazione Isal su dolore, etica, salute.
Pubblico coinvolto e certamente sensibile alle problematiche trattate, vista la partecipazione anche con interventi e molte domande, con le quali si sono confrontati monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino–Montefeltro, il dott. Luciano Caro, Rabino Capo della Comunità Ebraica di Ferrara, e lo stesso dottor Raffaeli in qualità di Presidente Isal (Istituto Ricerca e Formazione in Scienze Algologiche), moderati da Giampaolo Proni, docente di semiotica all’Università di Bologna.
Dolore cronico
L’interrogativo principale per tutti è: come porsi davanti al dolore cronico?
Per l’ebraismo bisogna alleviare per quanto possibile chi è in questo stato di sofferenza e quando non si può far nulla, pregare e andare a trovare i malati.
“Il Talmud dice che chi va a trovare il malato
– spiega il Rabino di Ferrara, Luciano Caro –
lo solleva del 60% da sofferenza e malattia. Inoltre nella tradizione ebraica è espressamete vietato abbandonare il moribondo. Si dice anche che chi trascorre 40 giorni senza essere colto da malattia e sofferenza può affermare di aver già colto ciò che di meglio la vita può offrire”.
Tutte sagge citazioni, ma i miti della salute e dell’efficienza ad ogni costo tendono a considerare tabù ogni manifestazione della sofferenza e della morte perché richiamo alla caducità della vita.
Per monsignor Luigi Negri il dolore non va considerato alla stregua di un organo che si rompe e va aggiustato a tutti i costi.
Il mito della scienza
“La modernità, – ha sottolineato il vescovo di San Marino-Montefeltro – vede l’uomo come soggetto di potere che deve per forza impadronirsi della realtà, come se non dovessero più esserci dramma né mistero. Il medico ha il dovere di accudire il paziente fino alla fine dei suoi giorni, non di mandarlo a casa, quando non c’è più nulla da fare. Oggi, nella maggioranza dei casi, non ci sono più malati ma numeri, non esistono più le malattie ma dei casi clinici”.
Citando Papa Giovanni Paolo II, il presule ha ricordato che “il dolore è un mondo. La sofferenza una condizione della vita, ed è intrecciata anche con il bene, ci porta alle soglie del Mistero e dice all’uomo che non è lui il padrone. Attraverso il cammino del dolore viene portato in modo complesso in primo piano Dio. È a questo punto che si accende un dialogo tra il «Mistero» e il cuore umano. È una parola dura quella che Dio ci dice attraverso la sofferenza, ma per noi cristiani il «senso» c’è. È Gesù Cristo. Lui si è fatto carico del dolore degli uomini, unica condizione per arrivare alla «felicità» della vita eterna, che nasce nell’uomo, solo tramite la conoscenza e la Fede”.
La questione della sofferenza è importantissima e va approfondita anche attraverso il confronto di diverse espressioni. Ma c’è un rischio, secondo monsignor Negri: quello “di banalizzare il dolore concepito allo stregua della malattia di un organo, che se non funziona va eliminato grazie alla capacità tecnologica del medico che tende a sostituirsi a volte a chi è sopra di lui…”.
Fino ad arrivare all’accanimento terapeutico di cui tanto si discute. Ma quali sono i limiti da non oltrepassare per rispettare le creature umane?
Accanimento terapeutico
“Ogni caso fa storia a se – spiega il rabbino Luciano Caro – non abbiamo diritto di abiurare la vita umana. Però, se il paziente continua la sua esistenza solo tramite una macchina, se ne abbiamo la certezza, di solito si propone di sospenderne fino a tre volte, per qualche istante, il funzionamento. Se dopo questi tentativi la persona malata non dà alcun segnale di capacità di reagire autonomamente, si propone di staccarlo dalla macchina definitivamente.
Ma non c’è accordo univoco su questa procedura nelle comunità rabbiniche. È una questione ancora molto controversa”.
“L’accanimento in certi casi va contro la persona. – sostiene Negri – Occorre che il medico agisca all’interno della comunità, non sopra di essa. Deve essere l’uomo affetto da malattia se ne è in grado, o il suo contesto parentale a elaborare qualsiasi decisione. Fermo restando che non esiste un «diritto a morire», ma a camminare nel mistero, perché nessuno ha a disposizione la sua vita, che non si può accendere e spegnere come uno strumento tecnologico. Non si può nemmeno attribuire alla Magistratura la decisione ultima sulla vita.
Tuttavia, nessuno può sottrarsi al dramma della scelta, con la dignità e il rispetto della persona. “Ci sono stati casi però che hanno contraddetto qualsiasi previsione scientifica nefasta”.
Cinzia sartini