Sono arrivati a migliaia da tutte le parti d’Italia. Educatori, insegnanti di sostegno, psicologi, formatori, dirigenti scolastici, tutti a Rimini per partecipare al convegno del Centro studi Erickson sulla qualità dell’integrazione scolastica. Una grande assemblea fatta da quegli operatori che vivono in prima linea il problema dell’inserimento delle persone disabili nella scuola.
“È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena – sottolinea Edgar Morin, filosofo e sociologo francese di fama internazionale e ospite del convegno – la scuola deve insegnare a vivere, come nel rugby, dove passare la palla indietro significa avanzare tutti insieme verso la meta, così nella scuola è necessario progettare didattiche che si prendano cura di tutti e puntino al benessere dello studente”.
Un’immagine che ben descrive la necessità di accettare la sfida dell’integrazione degli alunni in situazione grave o gravissima di handicap, per evitare il rischio di un ritorno a interventi separati e segreganti. Ma sono ancora molti i nodi e le difficoltà, principalmente per gli insegnanti che si trovano a gestire da soli situazioni complesse ed eterogenee davanti a genitori che spesso pensano che quel compagno di banco del figlio con bisogni speciali sia “un peso” perché fa rallentare la classe.
La tematica dell’integrazione scolastica – oggi si preferisce usare il termine inclusione – ha trovato nel territorio riminese un particolare sviluppo grazie alla sensibilità di numerose persone, istituti, associazioni ed enti pubblici. Delegazioni straniere – ospitate dalla Ong EducAid – vengono spesso a Rimini per visitare alcune scuole, esempi virtuosi di integrazione, per apprendere e sviluppare le competenze maturate nel campo dell’inclusione educativa.
“Con inclusione educativa – spiega Alfredo Camerini, responsabile di EducAId, associazione riminese che realizza progetti di cooperazione internazionale in campo educativo – si intende la presenza in aula di minori disabili o con difficoltà che necessitano di approcci educativi mirati e apprendimenti con la classe e gli altri bambini. Nel sistema italiano viene fatto attraverso un insegnante di sostegno”.
L’esperienza del Ceis
“A parole, tutti sono favorevoli all’inclusione – commenta Giovanni Sapucci, direttore del Ceis, il Centro Educativo Italo Svizzero – ma nei fatti c’è una grande difficoltà a considerare il bambino disabile come una parte della classe, con il rischio di delegare il suo apprendimento al solo insegnante di sostegno”.
Dal 1946 il Ceis educa bambini anche con gravi disabilità o disturbi nell’apprendimento. Collocato nel centro di Rimini in un luogo che sembra un vero e proprio villaggio, fatto da piccole baite in legno, il Centro ha fatto dell’integrazione il suo punto di forza con una percentuale di bambini con handicap all’interno di ogni classe intorno all’8%, mentre la media nazionale si attesta al 2%. Oltre alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria, il Ceis dispone di laboratori specializzati per bambini con handicap grave, un Parco Pedagogico per l’educazione attiva, dove vengono organizzati corsi di formazione e aggiornamento per insegnanti ed educatori. L’istituto è privato ma alcune attività sono finanziate dal Comune di Rimini perché riconosciute come servizio pubblico.
“La scuola si nasconde dietro il problema della scarsità delle risorse – rincara Sapucci – ma credo che dietro ci sia anche la scarsa volontà di usare le risorse disponibili nel modo più efficace, verso la realizzazione di didattiche individualizzate, perché la diversità è fra ognuno di noi, non solo tra bambini disabili e normali”.
Da qui la necessità di ripensare gli strumenti dell’apprendimento, superando il modello della lezione frontale ma mettendo al centro la relazione. Partendo dal presupposto che la scuola è un diritto per tutti, anche per i bambini disabili, l’attenzione alla diversità migliora la qualità dell’apprendimento, aiuta gli insegnanti ad essere flessibili, ripensare la didattica e il proprio intervento educativo in base ai bambini che ha davanti.
“L’ apprendimento ha senso solo nella misura in cui lo studente lo percepisce come uno strumento per vivere meglio e si regge su una didattica che si organizza in modo individualizzato che riconosce il valore di ognuno dentro ad un gruppo, la base di una società davvero democratica” spiega Sapucci. Vivere in un contesto scolastico con bambini diversi, con capacità di apprendimento diverse, con possibilità diverse, diventa l’elemento di ricchezza che è più simile alla realtà sociale che tutti i bambini vivono fuori dalla classe. Resta il fatto che la scuola, anche abbracciando l’integrazione, deve pensare alla qualità dell’apprendimento e non trascurare nessuno. Si parla molto di efficienza della scuola italiana e di meritocrazia, un termine che nasconde il rischio dell’esclusione creando differenze a seconda dei livelli raggiunti.
“Importanti ricerche internazionali hanno dimostrato che la scuola del merito non produce una migliore qualità di apprendimento, che viene raggiunta nelle scuole dove i bambini sono allenati alla complessità, data dalla presenza all’interno della classe della diversità”.
La scuola non è un’azienda
Opinione condivisa da chi lavora sul campo, è che la sfida maggiore dell’integrazione scolastica oggi sia quella della qualità. L’integrazione è minacciata dalla direzione che stanno sempre più prendendo le politiche scolastiche.
“Per fare una scuola di qualità servono risorse, ovviamente, sia finanziarie sia umane. – spiega la dirigente della scuola media «Alighieri», Enrica Morolli – È difficile se manca la continuità degli insegnanti di sostegno, se non è più obbligatorio l’aggiornamento e si riducono le compresenze nel tempo pieno”.
Con una riduzione del personale, il minore che riceve meno attenzioni viene lasciato a se stesso. “La scuola non può essere organizzata come un’azienda qualunque, a scapito della qualità. L’insegnante di sostegno c’è per 9 ore alla settimana, troppo poche. Bisogna riconoscere che le scuole si devono arrangiare per utilizzare al meglio le risorse. Stiamo chiedendo molto agli insegnanti, aggiornamento e formazione vengono fatte in modo volontario”.
Una vita non si boccia mai, la diversità fa paura, crea imbarazzo, ma è parte integrante della nostra vita, tutti siamo potenzialmente disabili. Insegnava don Lorenzo Milani: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.
Valentina Ghini