È imbarazzante assistere alla commemorazione di un amico: soprattutto se si avverte lo stridore con lo spirito vero di quell’amico che si fatica a pensare ”morto”.
L’amico scomparso da pochi mesi si chiama Peppino Bonura (nella foto), la località della commemorazione è Fano, sua città di origine. “Peppino” Bonura è stato un famoso critico letterario, titolare della rubrica libri di Avvenire; di lui hanno celebrato il rigore le più autorevoli firme della critica italiana. Autore di quindici romanzi di successo (di cui ben due vincitori del Grinzane Cavour), libri di racconti e saggi (fra cui il mio vecchio Tecniche dell’inganno del 1974) era noto anche per le sue stroncature che rompevano il fronte delle innumerevoli captatio benevolentie che caratterizzano il mondo editoriale.
Dicevo, una commemorazione imbarazzante quanto si vuole, quella di Fano – per l’inevitabile trombonaggine, il solito pigolante fine dicitore, il folto pubblico over 60 – ma almeno commemorazione è stata. Temo invece che a Rimini lo conoscano in pochi e nessuno si è sognato di commemorarlo, badate bene, non solo per colpa delle solite Istituzioni.
Lo faccio indegnamente io, il più infido dei suoi amici, quello che non era particolarmente in sintonia con la sua prosa; quello che dopo il suo “periodo riminese” degli anni ’60 lo ha perso di vista per oltre un trentennio, risentendolo solo venti giorni prima della sua morte, dallo studio di Meldini, con una telefonata di quelle difficili da dimenticare…
Spero che gli altri amici del gruppo di quegli anni – Meldini, Gnassi e D’Augusta in primis – mi soccorrano in questo compito di rendere testimonianza all’amico che è stato per tutti noi: proponendo magari un incontro come sarebbe piaciuto a lui (che diceva sempre delle spiritosaggini accompagnate da risatine secche che a parole non facevano ridere nessuno, ma che messe sulla pagina diventavano dei clamorosi deterrenti all’enfasi di qualunque genere): si potrebbe organizzare un sit-in sui gradini della Cappella, ma andrebbero bene anche i tavolini dell’ex Caffè Turismo, dove di solito Peppino pontificava a noi pivelli…
Peppino è stato in realtà il perno letterario della nostra generazione di aspiranti letterati riminesi. L’abbiamo conosciuto in veste di Direttore di una Libreria-meteora, in via Dante, vissuta una stagione. Vi comprammo i testi di James Joyce e di Franz Kafka, i deliri di Jack Kerouac e gli urli di Allen Ginsberg, mentre io intrattenevo ideali e profetici rapporti con l’editore Lawrence Ferlinghetti.
Ma il cemento galeotto dell’amicizia fu un libretto di racconti titolato Non più leggenda, dedicato alla Resistenza (con in copertina una serigrafia astratta (!) color nocciola, di Vittorio D’Augusta, gesto questo sì “rivoluzionario”!) di cui sembra invece che Peppino non abbia memoria nelle sue memorie. Il distacco del suo racconto dai nostri (del mio mi vergogno ancora oggi!) era clamoroso. Lui raccontava, noi arrancavamo dietro le nostre voglie di letteratura. Unica eccezione Meldini, lo si capisce col senno di poi…
Ricorda invece e si dilunga, Peppino, nell’esperienza “politica” del Circolo Gobetti, che avevamo fondato “a nostra insaputa”, per il quale occorre lasciargli la parola: “Personaggi famosi della politica e della cultura venivano al Circolo a tenervi conferenze e dibattiti. La rivoluzione era vicina, proprio a un passo da noi. Non la vedemmo mai. La mia utopia era Jenny, una ragazza che distribuiva volantini agli altri e baci a me solo, e io mi sentivo trasportare dalla corrente viva della storia”.
Questa “acqua viva” continua a scorrere ancora, Peppino, i fiumi stessi ti battono le mani, ora, alla faccia della tua irriverente iconoclastia.
Mario Guaraldi