Caro Direttore, la ringrazio per l’articolo Potrebbe essere del Vasari? Con autoironia a volte mi prendo in giro per le mie pompose attribuzioni o per i rifiuti delle attribuzioni altrui che ho esternati in tutta la mia attività di ricercatore dedicata a questa mia città d’elezione. Pompose sì, ma si tratta quasi sempre di operazioni fondate sui documenti e su analisi autoptiche dei linguaggi stilistici. I documenti sono indiscutibili, seppure vadano interpretati, le analisi stilistiche invece si prestano a contestazioni. La ricerca è un’attività infinita e così sono numerose le interpretazioni e le revisioni legittime, ma ce ne sono anche di spurie. Negli ultimi tempi, mi preoccupo di lasciare come degli addentellati per il lavoro dei giovani studiosi che si avventureranno per i nostri sentieri di ricerca.
Per scherzo, ho attribuito l’Arco di Augusto, su modello o impronta pliniana, a partire dalla rappresentazione di una testa di cinghiale –aper – sulla quinta formella dal basso nelle due parti di cielo del frontone verso Roma dell’Arco: QVINTVS APER.
Ho sostenuto, con tutti i critici italiani e stranieri, a partire da Gaetano Milanesi, l’autoria di Filippo Brunelleschi di Castel Sismondo, con prove letterarie, documentali e stilistiche. Pare ben strano che a Rimini non si riconosca, dai tempi di Carlo Tonini, questa universale prestigiosissima attribuzione.
Ho dato il palazzo Gambalunga a Giovanni Laurentini Arrigoni, insieme ai portali della chiesa di Sant’ Agostino e al portale datato 1772, la data è stata incisa su un monumento anteriore. Queste attribuzioni sono basate soprattutto sulla lettura stilistica, anche se non mancano indizi documentali, e quindi non sono “certe”. Spero che stimolino interventi critici dei nuovi studiosi.
Alla fine del Seicento o ai primi del secolo seguente spettano le inferriate dei due balconi nell’ex palazzo Belli, sul Corso tra le due piazze (era la residenza del parigino Victoir Tisserand, nonno di Vittorio Belli). Sono due capolavori assoluti, così belle non ci sono nemmeno a Roma, all’altezza di quelle delal reggia di Versailles. Per certi ornamenti – il girasole, simbolo dei sudditi del Re Sole – e per la somiglianza con mobili di Versailles, le ho credute francesi.
Ma Madame Anne-Charlotte Cathelinau, direttrice del museo delle inferriate francesi di Rouen mi ha scritto che non li ritiene francesi. Chi avrà tempo cercherà nei documenti notarili in Archivio di Stato e se avrà fortuna scoprirà il nome dell’artista – speriamo sia un riminese – di capacità e progettualità straordinarie.
Al Settecento architettonico bolognese, non senza documenti, ma col riconoscimento dello stile della mia città di formazione, che mi è familiare, ho attribuito la chiesa dei Gesuiti, San Francesco Saverio. L’esterno è documentato come opera del capo mastro ticinese, ma residente a Imola, Domenico Trifogli; l’interno, per lettura stilistica e per un documento, si può attribuire a Francesco Bibiena o al suo allievo Francesco Chamant. Di recente al bolognese Gaetano Stegani, in coppia con Antonio Trentanove, ho assegnato al chiesa di San Giovanni Battista, già data al capo mastro Giuliano Cupioli. I due realizzeranno di lì a poco la chiesa dei Servi di Rimini.
Il primo faro-fortino sul porto di Rimini che con 10 mila scudi donati da papa Clemente XII, negli anni 1732-1735, era stato fondato dall’architetto romano Sebastiano Cipriani, e poi interrotto per intervento di Luigi Vanvitelli, ha lasciato come reliquia una statua del papa Corsini.
Tale statua è conservata tuttora nel Palazzo del Governo di San Marino, dove l’aveva trasportata il cardinale legato Giulio Alberoni, quando nel 1737 era diventato padrone della Repubblica.
La statua è molto bella e costò ai Riminesi ben 381 scudi e baiocchi 76, i Sammarinesi la pagarono invece 416 scudi e 59 baiocchi. Penso che sia dello scultore romano Pietro Bracci, cui si devono le sculture della Fontana di Trevi, il quale nello stesso tempo aveva scolpito una statua del papa per Ravenna.
Il secondo faro sul porto cronologicamente risale agli anni 1760 circa – anno della costruzione della piattaforma o molo su cui venne eretto, su disegni dei Marchionni architetti di Ancona – al 1764, anno attestato sulle Tabelle, o riepilogo delle spese della Comunità di Rimini.
A mio parere, fondato su documenti e sulla lettura stilistica, l’autore del faro potrebbe essere quello indicato tradizionalmente, cioè Giovan Francesco Buonamici che nel 1758 e 1759, anno della sua morte, dirigeva il cantiere della Torre dell’Orologio in piazza Sant’Antonio. Ma il carattere vernacolare del linguaggio del terzo sopravvissuto alla guerra della torre, e qualche traccia documentale mi fanno pensare ad una semplificazione del progetto architettonico del Buonamici attuata dal fattore della Comunità Matteo Costa e dal capo mastro della Comunità Domenico Bazzocchi Pomposi, il quale dopo circa un decennio costruì su suo progetto la chiesa di Sant’Antonio sul porto.
Sono anni che sto dando la caccia all’autore del bellissimo crescente della piazza di Mondaino, tradizionalmente assegnato ai capi mastri locali Cosci e agli anni ’40. Si tratta invece di una costruzione degli anni ’20 dell’800 ed è ascrivibile ad un ingegnere di comparto della Legazione di Forlì (a loro spettavano le progettazioni dei comuni piccoli ancora senza ingegneri comunali), uno dei tre che si sono succeduti in quegli anni: il ravennate Guido Romiti, il forlimpopolese Ruffillo Righini, il mio preferito, o il riminese Maurizio Brighenti.
Sono anni che vado cercando anche l’autore del villino Cacciaguerra, edificio che non è assolutamente liberty, ma classico, opera, a mio sindacabile avviso, di uno dei due ingegneri Luigi o Giuseppe Urbani, figli di Gaetano Urbani. Purtroppo mancano interi decenni di documentazione archivistica comunale dalla fine dell’800 agli anni ’20 del ’900.
A quest’elenco di attribuzioni e di altre “minori”, alle quali si aggiunge l’ultima della Galvanina, spero tocchi una sorte di sviluppo e di revisione; non mi considero certo un genio dell’attribuzione, ma quasi un diligente artigiano della critica che procede con “ragioni” verificabili e accettabili.
Giovanni Rimondini