Come ho accolto la Lettera? Come la lettera dell’«amico dello Sposo» (Gv 3), che mi porta notizie dell’Amato: conosciuto, atteso, ma non ancora abbracciato (Ct 3). Mi fido delle sue parole, perché «l’amico dello Sposo gli sta vicino e l’ascolta» e, chi ascolta con amore (a detta di chi ha potuto appoggiare il capo sul Suo petto) conosce veramente (1Gv).
Se dovessi poi tentare di definirla, la considererei profetica, poiché «l’amico dello Sposo» si firma Giovanni Battista. La Lettera, infatti, produce i medesimi effetti della vera profezia: ad alcuni affascina, entusiasma, risveglia ideali, sogni, energie latenti: chi sperimenta questa “liberazione” ri-sente il gusto della Vita che gli ri-circola in corpo; ad altri, però, dà fastidio, scomoda, provoca repulsione: conduce a far finta di niente, quando va bene o, quando va male, alla rabbia, alla calunnia e fino al desiderio di eliminazione del profeta. È quanto accadde al Battista: «Erode lo ascoltava volentieri – ci informano i Vangeli – lo sapeva giusto e santo»; ma quel grido di denuncia – «non ti è lecito!» – lo faceva andare su tutte le furie, fino a quando…. È quanto può accadere ancor oggi ai cristiani riminesi.
L’«amico dello Sposo» della nostra Chiesa non gioca infatti al ribasso e come il Battista non ci fa sconti: afferrato al vincastro di Pietro (sc Benedetto XVI) ci richiama a «radicale conversione, come risoluta inversione di rotta…, perché anche la Chiesa riminese… imbocchi nuovamente… la via stretta e ripida della riforma, e così da umiliata possa diventare più umile e più credibile». Ciò che ci umilia – dice – non sono i pochi cristiani nelle nostre parrocchie, ma il fatto che siamo poco cristiani; non è insomma una crisi di quantità (di preti, di cristiani, di laici preparati, di consacrati, di sacramenti, di attività e di iniziative), ma di qualità.
Esiste un segno indicatore e inequivocabile della veridicità di questa profezia: la tristezza sui volti di tanti cristiani! Indice di un cuore “vecchio”, di una vita mediocre, che ancora non ha gustato la gioia dello Spirito, la gioia del cuore di Gesù trapiantato nel suo cuore. Scriveva a noi riminesi un «inviato speciale di Dio»: «Quanti, purtroppo, sono i moribondi e i morti spirituali fra i nostri compagni di lavoro, di divertimento; cadaveri ambulanti, sepolcri imbiancati. S’incontrano giovani, anime senza ali; prigionieri d’una pesantezza greve. È immensamente triste una giovinezza senza la passione delle altezze» (A. Marvelli). È infatti a causa della nostra tristezza che i nostri giovani sono come aquile ormai convinte di essere polli: raspano tutto il giorno, anziché librarsi tra le vette innevate, e non capiscono perché sono tristi!
Il vescovo Francesco, da vero padre spirituale, indica la terapia: niente aspirina, ma sedute di chemio; indica la via: no quella “larga” dell’organizzazione pastorale più efficiente, ma quella “stretta”, la cui segnaletica indica inequivocabili sensi unici: “conversione” “ravvedimento” “riparazione” “riforma” “purificazione” “sacrificio”; chiede ad ognuno, insomma, il coraggio di entrare nelle proprie morti e di sfidarle a viso aperto (sc mortificarsi), unico modo per passare dalla morte alla vita, dalla tristezza alla gioia della vita divina trapiantata in noi.
È a questo punto – la seconda parte della Lettera – che la voce suadente e calda dell’«amico dello Sposo» assume i contorni di quella del Battista di fronte all’Erode di turno: come puoi dirti cristiano se non sei povero in spirito (poni tutta la tua sicurezza nel garanzia del lavoro; hai l’ansia per il futuro e l’ossessione del benessere; ti valuti per ciò che possiedi, anziché per quello che sei di fronte a Dio; non paghi le tasse; la tua proprietà è intoccabile), se ti disperi nella sofferenza (maledici il dolore e non accetti che possa essere salvifico nell’abbraccio del Crocifisso, cerchi la vendetta sul nemico), se non sei assetato di giustizia/santità (cerchi la tua realizzazione senza Dio, anziché la tua irripetibile vocazione alla santità; preferisci tacere sui valori “non negoziabili” e non dichiarare apertamente la tua fede per non fare brutta figura; dedichi alla preghiera i “rimasugli” del tuo tempo e del tuo cuore, magari con formule imparaticce; alla Messa domenicale a volte anteponi cose più importanti e quando esci ti dimentichi dei poveri), né operatore di pace (nella comunità cristiana non avverti la resposabilità della comunione e in quella politica del bene comune; se sei impegnato in politica la tua bussola non è l’insegnamento sociale della Chiesa, ma quello di altri “maestri”) e né puro di cuore (la sessualità è per te un gioco, l’accetti fuori dal matrimonio e tra persone delle stesso sesso; la svincoli dalla trasmissione della vita e la ritieni comunque “amore”; non accetti che il tuo corpo e quello del tuo partner siano membra di Cristo e non solo vostre)?
Nessun cristiano riminese, però, ne chieda la testa su un piatto d’argento.
Elisabetta Casadei
consacrata dell’Ordo virginum di Rimini, professoressa all’ISSR “A. Marvelli” di Rimini