Il suo sogno da ragazzino era fare il portiere. Aspirazione facile da comprendere: la sua casa popolare si affacciava sullo stadio di Rimini, dal terrazzo riusciva a sbirciare, rimanendone folgorato, i tuffi di kamikaze Ghezzi. Da un palo all’altro, a imbracciar palloni.
Col passare degli anni, il riminese Teo De Luigi al pallone ha preferito la macchina da presa, abbraccio ben diverso. Solo che il suo Dna non ha smarrito il suo passato: impossibile dimenticare uno sport che ha rappresentato passione e spensieratezza nello stesso tempo. Il calcio metafora di vita, ha scritto pomposamente Sartre. Lo sport come linguaggio universale, finestra per affacciarsi sul cortile della nuda (e spesso fredda) realtà, secondo il regista riminese. Lui non lo dice in maniera esplicita, il messaggio però è chiaro in due documentari girati sei anni addietro, ma per le strane alchimie della distribuzione usciti solo oggi: L’urlo del ’68 e Rapiti ’78. Due racconti di oltre mezz’ora, viaggio tra società, politica e gioco del pallone, che hanno per fulcro la vittoria agli europei del 1968 e la partecipazione ai mondiali d’Argentina del 1978.
Dieci anni chiave, aperti dall’urlo piazzaiolo e spesso arrabbiato degli studenti, chiusi dalla terribile uccisione di Aldo Moro.
“Il 1968, in qualunque modo lo si giudichi, rimane un anno di svolta nella storia d’Italia. Ha rappresentato la rabbia degli studenti, che per la prima volta hanno alzato la voce. Il problema è che a quell’anno ha poi fatto seguito il ’69 con la strage di Piazza Fontana, con pezzi impazziti dello Stato complici di un terribile delitto”.
A urlare quell’anno non c’erano solo i “figli di papà” (Pier Paolo Pasolini), ma l’Italia intera, d’incanto trovatasi campione d’Europa – ancora oggi è l’unica vittoria in quella competizione. Una vittoria simboleggiata dall’eurogol di Anastasi, l’emigrato che ce l’aveva fatta a sfondare al Nord, il campione capace di mandare in visibilio l’Olimpico e la penisola tutta.
“Il paradosso di quella vittoria è la memoria collettiva che stranamente ne conserva un labile ricordo – prosegue De Luigi – In parte perché la televisione non era ancora invadente come oggi. Solo un esempio: nel film ho preso il replay originale del gol di Anastasi, video nel quale compare la scritta «ripetizione». È evidente che siamo alle origini della tv: il calcio era ancora uno sport, per spettacolo si intendevano balletti, varietà e quant’altro”.
Il fotogramma più bello di quella vittoria?
“Il gol di Anastasi è la cosa più spettacolare, dico però la presenza di Riva, il suo unire con la sua figura stile e potenza. Un alieno. Un eroe omerico, come lo aveva definito Gianni Brera”.
La particolarità dei suoi documentari sta nel raccogliere le testimonianze di alcuni protagonisti d’allora e metterli di fronte a un doppio racconto del reale.
“Da una parte l’evento sportivo vissuto in prima persona, dall’altro ciò che avveniva nel mondo in quello stesso momento. Troviamo così Facchetti che racconta la sua costernazione alla notizia dell’uccisione di Martin Luther King, Mazzola a quella di Kennedy, Burgnich alla strage di Città del Messico”.
Passano dieci anni e i protagonisti hanno nuovi nomi e nuovi volti: di identico resta solo la maglia. Sono i mondiali d’Argentina, dove l’Italia se ne torna a casa con un pugno di mosche in mano, protagonista però del miglior calcio.
“Ho scelto il ’78 per un paradosso: la Nazionale si presenta spumeggiante e brillante in campo, come mai era successo prima; la contemporanea presenza di due tragedie, come l’assurda uccisione di Aldo Moro, e una competizione che doveva essere la vetrina di una sanguinaria dittatura militare”.
Perché ha affidato il racconto alle parole di Julio Velasco, che successivamente fuggirà da quel regime?
“Il racconto dell’allenatore argentino è emblematico. Velasco racconta il suo stato d’animo al momento della vittoria dell’Argentina nella finale. La gente scende in piazza a festeggiare, lui e la moglie si domandano: partecipare o rimanere in casa? Vanno anche loro, ma dopo 5 minuti se ne tornano a casa: impossibile esultare quando la gente spariva e veniva ammazzata”.
Questo è il paradosso di Argentina ’78, questa l’assurdità del pallone. Ma dell’urlo cos’è rimasto?
“Degli studenti non è rimasto granché. Da quel momento molti equilibri si sono disequilibrati. Mazzola racconta che nel ’68 è nato il sindacato dei calciatori. Nella società c’erano i semi per fare qualcosa d’importante. Sofri dice che sono stati due anni dove non siamo mai andati a dormire e forse non eravamo neanche più in grado di sognare. Mi pare un’amara verità”.
Filippo Fabbri