“La guerra mai più”. È l’appello lanciato da Umberto Tamburini, 94 anni, militare riminese internato nei lager a Berlino, Presidente e Fondatore della Sezione Provinciale di Rimini dell’Associazione Nazionale ex Internati nei Lager nazisti, il 4 novembre ha ricevuto dal Prefetto di Rimini, dott.ssa Giuseppa Strano (nella foto), un diploma e la “Medaglia di Liberazione”, dedicata agli uomini e alle donne che hanno voluto confermare i principi di libertà e indipendenza su cui si fonda la Repubblica e la Costituzione e per trasmettere i relativi valori alle nuove generazioni. ll Prefetto lo ha definito: “una luce, un esempio per tutti i giovani. Grazie alle persone come lui, oggi siamo più liberi”.
Classe 1921, Umberto Tamburini è raggiunto dalla chiamata alle armi di leva. L’Italia è in guerra, Umberto è assegnato alla Fanteria a Trieste. Parte da Vergiano, dove i genitori tirano avanti con il lavoro dei campi. Il 14 settembre 1943 Umberto dice no. No alla collaborazione per servire l’invasore tedesco e la Repubblica Sociale, ultimo estremo tentativo di Mussolini di resistere alla storia e alla caduta. Il 22enne Tamburini rifiuta di collaborare con gli invasori. Per tutta risposta è catturato dai tedeschi e brutalmente deportato nei famigerati lager di prigionia e di sterminio. Lo marchiano con il numero 68307: Tamburini diventa così da persona a numero.
Vada avanti lei, Tamburini.
“Dopo l’8 settembre 1943, per noi militari la guerra era terminata. Un triste destino ci aspettava. I tedeschi, i vecchi alleati, volevano che riprendessimo le armi per sparare sugli anglo-americani che erano sbarcati in Siciia.
Rifiutammo in massa la collaborazione, pronunciando più volte e a voce alta il nostro «no». Ci circondarono, condannandoci brutalmente. Venimmo stipati sui carri bestiame. E in condizioni disumane ci obbligaroni nei lager di prigionia e di sterminio, dove ci ribattezzarono da persone a numeri”.
Cosa accadde a Berlino?
“Iniziò subito il nostro calvario: lavoro coatto giorno e notte e in condizioni di schiavitù”.
La sua prigionia si è protratta per oltre un anno e mezzo.
“Spiegare cosa sia stata la prigionia è veramente difficile: ci sono cose al mondo che non si possono descrivere, questa è una di quelle. Le prigioni del detenuto, le compagnie di disciplina, i lager di rieducazione, i luoghi di martirio, le impiccagioni di massa, i centri di sperimentazione medica nazisti e infine i lazzaretti, dai quali nessuno è più tornato.
Eravamo circa 700.000 militari italiani, 600.000 sono morti”.
Lei è tra gli scampati.
“Il 2 aprile 1945 sono riuscito a fuggire dal lager III D 1811 di Berlino insieme ad un compagno di prigionia. È iniziata così la fuga verso la libertà, tra mille peripezie e con il cuore in gola. Il 2 maggio, un mese dopo la fuga dal lager nazista, abbiamo cominciato a sorridere: i russi ci hanno liberato sul fiume Elba, nei pressi di Havelberg. Un mese dopo, esattamente il 3 maggio, sono passato nel territorio occupato dagli Americani fino al 17 agosto 1945, data del mio rientro in Italia”.
Era atteso dalla sua famiglia?
”I miei genitori non avevano più avuto notizie, erano convinti che fossi morto nel conflitto o durante la prigionia nel lager.
Da Vergiano, dove abitavo con il babbo Fortunato e la mamma Pasqua Galassi, dopo la guerra sono sceso a Rimini, in cerca di fortuna. E li mi sono sposato con Maria Gambuti (oggi 85enne, ndr) ed ho cambiato mestiere: da contadino a vigile urbano”.
Dal matrimonio sono nati tre figli: Valter, il maggiore, Patrizia e Sonia. Il nipote Roberto, il figlio del primogenito, è pilota di moto e corre – con più d’una soddisfazione – in SuperStock.
Tamburini, cosa direbbe alle nuove generazioni?
“È importante, anzi doveroso, lasciare una testimonianza su quanto è accaduto, perché le nuove generazioni non lo ripetano. La guerra distrugge tutto, non risolve nulla, non si impugnino più le armi, mai più la guerra”.
Paolo Guiducci