“Sono tornato da Tunisi con una trentina di fotografie. Foto di ragazzi. Alcune a colori, altre in bianco e nero. Le tengo custodite in una busta dentro un quaderno. Avvolte da un foglio di carta con su scritto a penna un elenco di nomi e date di nascita, in arabo. Ogni volta guardarle mi fa un po’ impressione. Come se temessi di incrociare il loro sguardo vivo che adesso non c’è più. Sì perché quei trenta ragazzi sono alcuni degli almeno 187 tunisini dispersi in mare nel 2011 lungo la rotta per Lampedusa. Me le hanno consegnate i loro familiari. E mi hanno chiesto di pubblicarle e di chiedere se qualcuno li ha mai visti in Italia, nei Cie o nelle carceri o in qualsiasi altro posto. L’esperienza di questi anni mi aiuta a pensare che non ci siano speranze di ritrovarli ancora in vita. Ma ho deciso di pubblicarle lo stesso”.
Poche parole che si raccontano da sole e che raccontano lo spirito del lavoro di Gabriele Del Grande, giovane giornalista che ha lasciato l’idea di una carriera “consueta” per rincorrere i morti nel Canale di Sicilia, le speranze dei vivi e il destino dei dispersi e delle loro famiglie. Questo messaggio, Del Grande, lo ha pubblicato nel suo blog fortresseurope.it e insieme, a rotazione, pubblica le foto che custodisce in quel quaderno.
Questo il suo lavoro. Un lavoro fatto di singole storie, di volti, di fotografie, degli “uni” che vengono fuori dalla massa con le loro avventure e le vicende personali. “Perché le storie a volte sono più importanti delle notizie”, puntualizza.
La scorsa settimana il giornalista si è mosso tra Rimini e Riccione – per una lezione ai giovani giornalisti che frequentano il corso di formazione Word Communication sul giornalismo sociale e per un incontro pubblico nell’ambito degli Incontri del Mediterraneo – raccontando il suo lavoro e la difformità dello stesso rispetto al panorama informativo dominante.
Il modus operandi del giornalista è lineare, a tratti imbarazzante nella sua semplicità. “Perché quando si parla di immigrati dobbiamo vedere i barconi con una moltitudine umana? Se al loro posto ci facessero vedere un volto non sarebbe meglio? Perché si devono usare i termini legati all’Apocalisse o alle catastrofe naturali? Sentiamo parlare di invasioni, di ondate, di Decreto flussi. Tutti termini che indicano distruzione. Questo è fuorviante. Così passa un messaggio, un’idea, un giudizio”.
Ma uno dei lavori più interessanti che il giornalista sta portando avanti, negli ultimi anni, è legato alla questione politica legata ai CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). Una politica, quella italiana, che ha sollevato qualche polemica anche tra le forze dell’ordine. Lo scorso agosto, infatti, rifacendosi ad una linea guida europea, l’allora Ministro dell’interno Roberto Maroni, allungò a 18 mesi il periodo di permanenza dentro questi centri di accoglienza con l’obiettivo dichiarato di avere più tempo per la identificazione dei migranti. “Una cosa che ha poco senso – commenta Del Grande – visto che le stesse forze di polizia dissero che era inutile visto che se l’identificazione non arrivava dopo due mesi, statisticamente non arrivava più. Perché voleva dire che non c’era collaborazione tra le ambasciate. Stiamo parlando di vere e proprie carceri”.
Lui le ha viste e sa di cosa parla. Negli ultimi anni non ha fatto altro che girare in lungo e in largo l’Italia, nelle città che accolgono i Cie: Torino, Roma, Bologna, Bari e giù sino in Sicilia. “La cosa che mi piace sempre ricordare è che lì dentro si trova di tutto. Ci sono le persone che passano da Lampedusa, ci sono ex detenuti, c’è gente che ha lavorato per anni in Italia ma si ritrova sprovvisto di documento. Persone eterogenee, che chiedono – quando ascoltati – cose diverse”.
Lui è riuscito ad entrare nei Cie, ma come ha fatto? Entrare, infatti, è vietato. A stabilirlo è una Circolare Ministeriale datata primo aprile 2011 voluta dall’ex Maroni che nega l’accesso agli organi di stampa. “Se io non riesco ad entrare loro riescono a fare uscire qualcosa. – racconta – In questo caso molto hanno aiutato i telefonini con la telecamera. Anche se non sarebbe possibile usarli. Dal Cie mi hanno raccontato che all’ingresso le forze di polizia ti chiedono di spaccare la telecamera del cellulare se vuoi tenerlo con te. Ma qualcuno riesce a far passare un cellulare funzionante. Sono loro che mi danno le notizie. Mi mandano materiali. Poi ho una rete di contatti che mi sono fatto durante questi anni di lavoro. Io li chiamo, gli chiedo se c’è qualcosa e loro mi passano gli amici, mi raccontano le storie. E io racconto loro attraverso il blog”. È in questo modo che il mondo ha saputo del pestaggio di una donna dentro il Cie di Roma rea di aver litigato con una compagna in occasione di una partita a calcio e che è valsa a Del Grande la prima pagina del quotidiano l’Unità. Storia raccontata per telefono e testimoniata da una foto. “Loro non hanno ufficio stampa, non possono indire una conferenza e sono fuori dal circuito della formazione della notizia. Io racconto per loro”.
Angela De Rubeis