Sono curiosa e ho sempre sognato di diventare una viaggiatrice, consapevole dei limiti e dell’insoddisfazione del mio mondo interiore.
Così si presenta Federica Natalia Rosati, 27enne dalla valigia sempre pronta, originaria di Torre Pedrera e protagonista della nostra rubrica «Riminesi all’estero». Ascoltarla apre il cuore e conferma che, per fortuna, esiste gente lontana da qualsiasi tipo di razzismo e di muri. Persone come lei, attente a ciò che si nasconde dietro le facciate.
Federica si è laureata in architettura a Ferrara. Scelta non facile, dice.
“Al liceo Serpieri avevo buoni voti e riuscivo a coltivare anche altri interessi: teatro, danza, musica. Fra le tante opzioni, lo studio dell’architettura mi attirò per la componente creativa e l’attenzione verso il mondo fisico che ci circonda”.
In poco tempo, già durante gli studi universitari, Federica ha arricchito il curriculum con significative esperienze all’estero, spostandosi in tre continenti.
“Odio la noia e nel viaggio trovo una spinta vitale, un’energia che mi permette di affrontare la vita come scoperta e di superare la monotonia. Oggi viviamo in un mondo globalizzato, con possibilità di scambio e di spostamento molto vantaggiose rispetto al passato. Inoltre la Comunità Europea offre tante opportunità, come i tirocini e le esperienze di formazione all’estero. Nel 2011, al terzo anno di università, grazie al progetto Erasmus sono partita per la Germania, rimanendovi due anni, prima per gli studi, poi per un tirocinio in uno studio di architettura. Esperienza fondamentale in cui ho capito che non sarei diventata architetto, in senso classico. Non perché non apprezzi il settore, coi suoi metodi e prodotti, ma non vedo il mio domani fissa al computer. Ho capito che l’architettura per me più interessante è quella senza architetti! Dopo questa esperienza sono rientrata a Ferrara per proseguire gli studi, ripartendo quasi subito per il Brasile, dove sono rimasta sei mesi per svolgere la tesi di laurea magistrale. Lì mi sono occupata di riqualificazione urbana di aree informali come slums o favelas. Fin dai primi anni di studi il mio interesse si è orientato verso i paesi in via di sviluppo, in particolare le grandi megalopoli a sud dell’Equatore. Queste città sintetizzano tutte le contraddizioni e interdipendenze dell’attuale mondo globalizzato, e da un punto di vista architettonico e urbano rappresentano una sfida ai modelli di pianificazione che per secoli noi occidentali abbiamo ritenuto universalmente validi. In tutte le realtà in cui ho lavorato le diseguaglianze sociali sono rese visibili da architetture contrastanti. La città degli architetti, o meglio delle archistar, frutto di grandi flussi di capitali e speculazioni immobiliari, in cui grandi porzioni di territorio sono privatizzate, segregate e accessibili solo alle élite minoritarie; contro le città delle persone, frutto di improvvisazioni e trasformazioni incrementali prodotte da sistemi sociali ed economici informali ed estremamente dinamici. Queste città si trovano catapultate in un mercato globale nel quale vogliono competere, senza però riuscire a fornire servizi minimi ai cittadini, né a tutelare l’ambiente. Però, quello che a me piace più delle città del sud e che mi manca ogni volta che torno in Europa, è il caos, la spontaneità, l’ottimismo di paesi che stanno emergendo, in cui gli spazi della città sono il prodotto dell’ingegno e della capacità d’improvvisazione dei suoi abitanti. Le città si trasformano in laboratori sperimentali in cui prendono piede le attività più disparate”.
In cosa ti stai specializzando?
“Ora sto facendo un dottorato di ricerca all’Università di Bruxelles e Liegi, dove mi occupo di sistemi di approvvigionamento di acqua e di reti fognarie in cinque città in Bolivia, Etiopia, Congo, India e Vietnam, paese da cui sono appena rientrata dopo sei mesi di ricerca. Al centro del mio lavoro, la comprensione delle dinamiche di urbanizzazione, in particolare rispetto all’accesso ai servizi. Uno degli obiettivi è quello di sviluppare proposte progettuali che mettano in relazione cittadini e governi, volte a migliorare le condizioni urbane e ambientali, molto preoccupanti in tutti questi paesi. Inquinamento dell’acqua e dell’aria, assenza di gestione dei rifiuti, deterioramento dell’ambiente e delle condizioni di vita delle persone, precarietà e impossibilità di accesso alla terra e alla casa, mancanza di risorse… questi sono i contesti in cui vorrei dare un contributo”.
In Italia avresti potuto formarti allo stesso modo?
“Avrei avuto molte difficoltà e non avrei avuto altrettante opportunità: nel mondo della ricerca le possibilità sono minori e ancora meno le borse di studio che permettono di fare questo lavoro a tempo pieno. Inoltre, da noi la ricerca, per lo meno nel settore dell’architettura, è molto conservatrice e le tematiche di sviluppo occupano un ruolo marginale, se non nullo, anche negli stessi programmi formativi delle facoltà di architettura”.
Cosa ti è piaciuto dei paesi in cui sei stata?
“Le persone e l’incredibile umanità e accoglienza dimostrata nei miei confronti. Lavorando sul tema dell’abitare ho visitato centinaia di case, sia lussuosi appartamenti di ricchi, sia misere baracche abitate dai più poveri. Nella maggioranza dei casi le persone non solo hanno accettato la mia presenza, ma mi hanno accolta con curiosità e affetto. Un’umanità osservata soprattutto nei contesti più poveri. Nel 2013, a San Paolo del Brasile, ho aiutato una ONG locale a realizzare costruzioni di emergenza in una favela nel sud della città. Per una settimana, assieme ad altri giovani, ho aiutato una famiglia a costruire una seconda casa per la figlia e la sua bimba neonata. La loro casa era un ammasso di pezzi di cartone, assi di legno e altri rifiuti assemblati assieme. In un’unica stanza abitavano cinque persone. Le fogne erano a cielo aperto e per accedere alle case si erano costruiti delle specie di pontili rialzati su palafitte. Quando pioveva, le condizioni del quartiere erano disastrose e spesso le case crollavano. È stato molto difficile abituarmi a quelle condizioni di miseria, all’odore insopportabile di feci umane e di rifiuti che bruciavano costantemente (la favela nasceva sul terreno di una discarica), ma l’affetto di quelle persone era palpabile. Quando abbiamo finito la casa, la famiglia e gli amici si sono radunati e hanno iniziato a cantare, ballare e, contemporaneamente, a piangere di gioia. Non dimenticherò mai la loro ospitalità, l’umanità e l’affetto: una grande luce nel buio e nella povertà cui erano costretti. Generosità che ho ritrovato ovunque: in Palestina, Vietnam, Cambogia, Uruguay e che, noi europei, attaccati alla materialità di una vita che non ci fa mancare nulla e concentrati sul benessere personale, a volte dimentichiamo.
Ci tengo a sottolineare tutto questo, alla luce delle derive xenofobe che sta prendendo il nostro paese, supportate da una politica spicciola e ignorante che alimenta odio tra popoli e la paura dell’altro. La diversità culturale è una risorsa e non una minaccia ed è a fondamento della storia dei popoli. Cosa sarebbe stata l’arte e l’architettura italiana senza il continuo susseguirsi di contatti e contaminazioni tra diversi popoli e culture?”
E la tua famiglia?
“Ogni volta che posso torno a Rimini per stare con la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuta. Immagino che per loro non sia facile sapermi sola in giro per il mondo: figlia unica, donna, alta meno di un metro e sessanta. Oltre ad avere accettato le mie inclinazioni, hanno mostrato crescente curiosità verso i luoghi che mi attraggono e quest’anno sono venuti a trovarmi in Vietnam. Una grande prova di coraggio. Hanno anche imparato a mangiare con le bacchette”.
Maria Cristina Muccioli