Picchiata e punita. Chiusa in stanze buie. Un grande, insormontabile dolore. Quella ferita, però, invece di infettare tutta una vita, si è rivelata portatrice sana di amore e di bene. La rabbia, il giudizio, la collera si sono incamminate in un percorso di perdono. E di abbraccio dei genitori.
49 anni da compiere, sposata da cinque lustri con Franco, tre figli, Silvia (il nome è di fantasia per tutelare i familiari) è una infermiera della zona sud della provincia di Rimini.
La sua infanzia è stata segnata da maltrattamenti e privazioni. Sofferenze indicibili a cui è seguito il collegio e una nuova famiglia affidataria. Un percorso in salita che Silvia – dopo un lungo lavoro su di sé – ora guarda dall’alto in basso e con una nuova cartina. Quella che ha come bussola il perdono. Perdonare si può e fa bene. “Al corpo e allo spirito. – assicura la donna – Ci si ammala di meno. E si risparmia su tanti fronti. Si semina un bene che prima o poi qualcuno raccoglierà fruttificato”.
Invece dei giochi tipici dei bambini, lei si è trovata fare i conti con punizioni, percosse e privazioni.
“Ferite profonde. Mio padre era avvocato, mia madre casalinga. Se ai loro occhi non ero perfetta, volavano botte. Anche col bastone. Dormire al buio nella stanza in fondo al corridoio era una punizione abituale, come pure mangiare nella ciotola del cane.
Pativo la fame, andavo in giro a rubare per avere le cose che agli altri erano normalmente concesse. Ma tutte le sere ho sempre chiesto al Signore che mi aiutasse ad avere fede e speranza”.
La situazione però non è migliorata. Anzi, ha preso una piega persino peggiore.
“Mia mamma litigava spesso con papà. E ha tentato più volte il suicidio, anche davanti a me. Nonostante questa situazione disperata, non si sono separati. Sono stata in collegio dall’età di cinque fino a dieci anni. Successivamente si è aperto per me l’affidamento familiare, dai 12 anni: i miei genitori non erano più in grado di accudirmi per problemi vari. Volevano mettermi in un istituto, invece attraverso l’aiuto di un sacerdote ho incontrato una famiglia affidataria.
Ringrazio il Signore per Carlo, Francesca e i loro tre figli, per il bene che mi hanno voluto e che tutt’ora mi vogliono”.
Anche l’affidamento non è stato una passeggiata. Le difficoltà non sono mancate. Il suo passato veniva sempre alla luce.
“Il primo anno è filato via benissimo. Non mi pareva vero di avere una vera famiglia. Con il passare del tempo sono emerse le sofferenze, i blocchi, le ferite, la paura di fidarmi, di non sentirmi amata. Ho messo alla prova i genitori affidatari. E sono stata costretta a farmi aiutare: da sola non ce l’avrei mai fatta.
Attorno ai 19 anni ho iniziato a sentire mamma e papà adottivi finalmente come miei genitori: anch’io avevo due genitori che mi amavano”.
E i tuoi genitori naturali? Li ha cancellati dalla tua vita?
“Li odiavo. E per anni ho interrotto ogni rapporto con loro. Gli ho persino augurato di morire, ma nonostante tutto li cercavo e al contempo li rifiutavo. Ho pianto tanto.
Dopo un lavoro di anni e con l’aiuto dei genitori adottivi, di mio marito e dei figli, ho imparato a perdonarli con il cuore e non solo a parole, anche se le ferite restano. Ho compreso che anche loro hanno sofferto durante l’infanzia e non hanno avuto la fortuna di incontrare persone che li amassero di un amore gratuito”.
Una vita segnata da un’infanzia di violenze e senza amore, eppure non hai rinunciato a riannodare i fili con tuo padre e tua madre. Agli occhi della società vendicativa è incomprensibile.
“I genitori li hai scritti dentro di te, fanno parte del tuo Dna. Fino all’ultimo ho sperato che i nostri rapporti si normalizzassero. Per la mia salute, sono stata costretta ad allontanarmi da loro. Una volta cresciuta, ho avvertito l’impellente necessità di non lasciare che il dolore e la rabbia avessero il sopravvento.
Non è stato un cammino imposto a pugni chiusi, ma un moto dell’anima. Grazie a mia sorella, mi sono riavvicinata a mia madre. Incontri molto radi. Ma intanto non gli auguravo più cattiverie. Poi c’è stata la riconciliazione”.
Com’è avvenuta, Silvia?
“I nostri incontri avvenivano in luoghi neutri. Sei anni fa circa mia madre è venuta a casa mia, prima una volta il mese, poi anche una volta a settimana. Incontri sempre più profondi, senza lasciare nulla al caso. Anche rivangando il passato e quegli episodi che porto incisi sulla pelle.
Perdonare non significa nascondere o mentire, tutto deve venire alla luce: dire la verità con carità e misericordia”.
A tuo padre hai riservato solo poche parole nel percorso di riconciliazione…
“Anche con papà avrei voluto intraprendere il percorso iniziato con mamma ma lui è morto 25 anni fa. Ho sempre pregato il Signore che lo perdonasse e che perdonasse me per non avergli dato questa possibilità, ma le ferite erano ancora troppo aperte”.
Sei stata costretta a rinascere una seconda volta.
“Al cammino di perdono, con mia madre si è affiancato anche quello di riconciliazione. Da quando ci siamo riavvicinate, mi chiede sempre scusa per il male commesso e se potesse tornare indietro non farebbe più ciò che ha fatto. Le ho sempre detto: non guardiamo più il passato, affidiamo il futuro al Signore. E ringraziamo per la grande opportunità che ci ha dato di poter vivere finalmente un rapporto sano di madre e figlia e di vivere gli anni che restano in pace e serenità”.
Paolo Guiducci