Nel disco del soprano Laura Catrani e del clavicembalista Claudio Astronio accostati in modo diacronico autori da Monteverdi a oggi
Un titolo, Highland & Sea, che evoca territori montuosi e marini. Il disco di Laura Catrani e Claudio Astronio, registrato nel gennaio 2019 a Gries (nei pressi di Bolzano), fa subito pensare alla stretta connessione fra musica e natura, alla quale – forse – non è estranea la provenienza geografica del soprano riminese e del clavicembalista altoatesino.
Con una selezione di brani giocata soprattutto sui contrasti cronologici, i due interpreti guidano l’ascoltatore attraverso un percorso – scelto con grandissima attenzione – capace di abbattere artificiosi steccati, dove appaiono per la prima volta percepibili legami sottili e contiguità che di solito sfuggono. Un ascolto che diventa piacevolissimo grazie alla capacità dei due musicisti d’instaurare una continua dialettica tra voce e cembalo (sia quando sono entrambi coinvolti nello stesso brano sia in quelli che affrontano singolarmente), tanto più che la tastiera di Astronio spesso riesce a dare la sensazione di un vero e proprio complesso strumentale.
Partendo dalla musica più lontana nel tempo – la splendida canzone che apre il disco, Ohimè ch’io cado, ohimè di Monteverdi, 1624 – e arrivando a quella più recente (Il mare antico di Massimo Botter, 2010), si scopre come le distanze cronologiche non producano, poi, bruschi salti sul piano uditivo. Sarà che ci si arriva passando per Le Vertigo di Royer (1746), sorta di biglietto da visita del clavicembalista, di cui Astronio ha valorizzato l’incredibile modernità dei contrasti, quasi novecentesca.
Non è certo l’unico esempio e sono tanti gli accostamenti che sembrano susseguirsi con perfetta naturalezza. Incastonate fra le taglienti sonorità del nostro tempo, le morbidezze degli autori del passato appaiono così esaltate, a cominciare da Purcell (forse uno dei vertici del disco): in The Cold Song, tratto da King Arthur (1691), dopo la suadente introduzione del cembalo, si viene trasportati dalla voce del soprano – che qui sfodera un sorprendente registro di petto – in un suggestivo mondo soprannaturale. The wonderful Widow of Eighteen Springs (dove Cage già nel 1942 sperimenta sia arditezze vocali sulle parole di Joyce sia l’uso percussivo del coperchio del pianoforte) ha il potere di esaltare, nel successivo Fra le procelle del mar turbato (dal Tito Manlio di Vivaldi, 1719), l’ardito virtuosismo vocale, potenziato dalla tastiera. È invece una tormentata malinconia, quella che il soprano comunica mettendone in luce tutta la modernità, a prevalere in Da chi spero aita, o cieli di Stradella, tratta dal suo oratorio La Susanna del 1681.
Rimanendo invece nel nostro tempo, Mad Rush (1989) rappresenta il doveroso tributo a Philip Glass, uno dei padri del minimalismo: qui si ha modo di apprezzare l’approccio quasi polifonico di Astronio e la sua capacità di giocare con la varietà dei timbri. E la sorpresa continua con Sielulintu (2009), brano ovviamente solo strumentale, visto che ne è autore Olli Mustonen, il celebre pianista finlandese. La voce torna a essere la vera protagonista in Terzo Haiku (da Otto canti, 2004) di Alessandro Solbiati, mentre il cembalo si assottiglia fin quasi a scomparire in un tenue alone sonoro. E nel salto dalle ossessive sonorità vocali di Emanuele Casale in Cielu niuru (1997) a Crude furie degli orridi abissi, si scopre come la celeberrima ultima aria dal Serse di Händel (1738) possa rappresentarne un’ascendenza nemmeno troppo lontana. Spiazzante infine è l’accostamento con le atmosfere contemplative del brano conclusivo, My Heart in the Highlands, scritto da Arvo Pärt nel 2000: sette minuti d’intensa suggestione, dove voce e strumento riescono a dare una rasserenante visione della natura.
Un unico rammarico: che i due interpreti non si possano vedere, perché osservarli sulla scena, in concerto, è davvero un’emozione.
Giulia Vannoni