Vi sono artisti capaci di modificare il modo in cui guardiamo il mondo e la nostra stessa epoca, autori le cui provocazioni ci spingono a pensare in modo diverso, talvolta addirittura sconvolgono le nostre concezioni estetiche. Pablo Ruiz y Picasso (Malaga, 25 ottobre 1881 – Mougins, 8 aprile 1973), noto semplicemente come Pablo Picasso, è senza dubbio uno di questi.
Acquisite le basi formali di disegno e pittura grazie al padre, professore di disegno e pittore nel tempo libero, il giovane Picasso maturò precocemente grande padronanza tecnica, che perfezionò seguendo corsi di disegno e studiando presso l’Accademia di Barcellona. Il fermento culturale ed artistico di fine XIX e inizio XX secolo troverà in lui terreno fertilissimo.
Quantunque in ambito storiografico non si disdegni di stabilire date convenzionali come spartiacque di riferimento tra le età storiche, nel campo della storia dell’arte è molto difficile potersi avvalere di date precise, in luogo delle quali si è soliti individuare movimenti artistici come momenti nevralgici dei passaggi d’epoca. Non pochi fanno coincidere la nascita dell’arte contemporanea con il sorgere del movimento impressionista. Non così Vittorio D’Augusta (nella foto). Nato a Fiume ma riminese d’adozione, pittore e docente di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Rimini, in “Pablo Picasso – L’infanzia infinita del genio”, la conferenza tenuta a Palazzo Buonadrata, per il penultimo appuntamento del ciclo primaverile della rassegna “I Maestri e il Tempo”, D’Augusta ha spiegato come propenda per collocare l’inizio dell’arte contemporanea nelle contestazioni allo stesso impressionismo. La prima fu quella di Cézanne, che anticipò il cubismo, un’altra quella di Gauguin, anticipatore del surrealismo, poi quella di Seurat, che creò il puntinismo e pose le basi per la pittura analitica, ed infine Van Gogh, che, andando all’opposto dell’impressionismo, generò l’espressionismo. Picasso, sebbene spesso semplicisticamente associato al solo cubismo, raccolse tutte e quattro queste eredità.
Peculiare di tutta la sua produzione artistica è il particolare rapporto tra forme e contenuti: più specificamente traducibili come “ossessione linguistica e “testimonianza”, in Picasso i due elementi coincidono o, quantomeno, stile e contenuto sono sempre perfettamente aderenti.
L’accezione della testimonianza va compresa come l’essere presenti al proprio momento storico. Per questo la pittura di Picasso fu arte di impegno in generale e di impegno politico in particolare. Ogni suo quadro è narrativo ed intende essere testimonianza. Ma non si tratta certo di pittura dal vero, quanto di immagini della verità percepita, o di “finzioni credibili”: nel celeberrimo “Guernica” (1937), ad esempio, Picasso non dipinse la guerra, ma l’orrore della guerra. Per lui l’arte pittorica, pur partendo da dati della realtà visibile, è “una somma di distruzioni”, ovvero di punti di vista scomposti e riassemblati, ma anche “un problema del vedere”, “il mestiere di un cieco”. Si tratta di provocatorie contraddizioni, ma l’arte contemporanea è sempre contraddittoria ed ossimorica per sua natura. Eppure non va spiegata. Picasso non sopportava chi chiedeva spiegazioni: la pittura parla da sé.
Grande seduttore, visse per la pittura ed in tal senso fu vitale fino alla fine, basti pensare che, negli ultimi due anni di vita, dipinse qualcosa come duecento quadri. Morì “al momento giusto”: negli anni ’70 si sviluppò una pittura slegata dall’impegno. Non l’avrebbe sopportata.
Non avendo mai smesso di provocare, è un provocazione anche la domanda che su di lui rimane in sospeso: Picasso è stato il più grande innovatore o l’ultimo dei grandi artisti della Tradizione?
Filippo Mancini