Al festival di Lugo dopo tre secoli Rinaldo Alessandrini ha proposto in prima moderna una ‘festa teatrale’ di Antonio Maria Bononcini
LUGO, 30 settembre 2018 – Un soggetto che ha ispirato innumerevoli librettisti e, naturalmente, compositori, soprattutto di area tedesca. La vicenda di Arminio, che nel I secolo dopo Cristo fomentò la rivolta germanica contro Roma, è approdata in palcoscenico in molteplici forme: dalle opere di Alessandro Scarlatti e Händel a quelle di Caldara, Hasse e Galuppi, diventando soggetto persino di balletti e, nell’ottocentesco, del celebre dramma di Kleist.
Fra le innumerevoli versioni che non hanno raggiunto altrettanta fama, c’è quella del modenese Antonio Maria Bononcini (fratello minore del più noto Giovanni), che ha intonato il libretto di Pietro Antonio Bernardoni, talentuoso letterato di Vignola: due fra i tanti italiani approdati in quel periodo alla corte viennese, dove questa ‘festa teatrale in due parti’ andò in scena nel 1706. Mai più rappresentato da allora, dopo tre secoli Arminio è stato riproposto a Purtimiro, in una esecuzione degli ottimi strumentisti di Concerto Italiano guidati da Rinaldo Alessandrini (artefice anche dell’edizione critica), che è pure direttore artistico di questo festival barocco ospitato da tre anni a Lugo.
La partitura offre più di un elemento d’interesse, soprattutto sul piano letterario, dove sembra di scorgere certi valori di lealtà e amor patrio che poi ritorneranno in modo più esplicito in Metastasio. Infatti, messa da parte la verità storica (in realtà Arminio fece una brutta fine e fu assassinato dai suoi stessi soldati), qui trionfano – nonostante la guerra in atto – i nobili sentimenti e si spreca l’ammirazione per l’eroismo dimostrato da alcuni personaggi, donne comprese. È il caso della volitiva Tusnelda, sposa del protagonista, che non esita a scagliarsi contro il padre per essere passato ai romani. Si tratta ovviamente di ingredienti drammaturgici indispensabili, peraltro assecondati in maniera molto efficace dalla musica, vista l’occasione encomiastica (Arminio fu concepito per celebrare il compleanno dell’imperatore Giuseppe I d’Asburgo). Del resto il tentativo, neppure troppo recondito, era quello di rintracciare un ideale e remoto collegamento fra la cattolicissima casa regnante viennese e l’impero romano.
Il personaggio centrale, per il numero di arie cantate, è Tusnelda: figlia di Germanico, sorella di Segimondo e moglie di Arminio. La vicenda, insomma, riguarda un’intera famiglia, tanto che quattro dei sei personaggi sono legati fra loro da rapporti di parentela. Dopo un avvio un po’ titubante, il soprano Giulia Bolcato è andata assestandosi e si è trovata sempre più a suo agio in una scrittura medio acuta dove ha sfoggiato timbro luminoso e un’apprezzabile disinvoltura negli abbellimenti. La solida Valeria Girardello, dal bel colore mezzosopranile, si è imposta per la sicurezza nelle colorature e l’espressività del fraseggio: doti che le hanno permesso di delineare un convincente Segimondo en travesti. Corretta e precisa il soprano Benedetta Corti, interprete di Ismenia, nel ruolo un po’ stereotipato dell’amorosa. Sul versante maschile, il basso Alessandro Ravasio, capo barbaro passato alla parte avversa e padre di Tusnelda, se la cava onorevolmente in una scrittura molto estesa. Più discontinuo il tenore Raffaele Giordani, il romano Germanico, per un canto talvolta scompaginato. L’eroico Armino, che dà il titolo all’opera, è un protagonista solo nominale. Non compare infatti nella prima parte mentre nella seconda canta appena tre arie, seppure quella molto bella che apre l’atto: a Vienna lo aveva interpretato un contralto, a Lugo il controtenore Enrico Torre, un po’ sottodimensionato.
A lasciare abbastanza perplessi è stata però l’esecuzione musicale con il ricorso a parti reali (cioè con i soli strumenti indicati nell’organico originario): una scelta che, soprattutto per quanto riguarda gli archi, non funziona troppo bene. Come possono due violini, seppure uno dei due suonato dal bravissimo Boris Begelman, trasmettere un’idea di pienezza orchestrale? Sonorità così scabre e volumi piccoli, penalizzati anche dall’assenza di variazioni dinamiche, si traducono inevitabilmente in perdita di espressività. Speriamo che sia dovuto solo a esigenze di risparmio e non a una scelta fatta nel nome della filologia.
Giulia Vannoni