Ci avviciniamo all’8 marzo, Giornata internazionale della Donna. Una ricorrenza importante, per riaffermare quella parità di diritti e di opportunità tra uomo e donna che per tanti, troppi aspetti il più delle volte rimane solo scritta su carta. Guardando al territorio romagnolo, la donna ha sempre rappresentato una figura estremamente importante del contesto familiare, il fulcro attorno al quale la famiglia ruota e si fa forza, il punto di riferimento.
Tanto che ancora oggi, in terra di Romagna, esiste la memoria di una figura femminile quasi mitica, che affascina e incuriosisce, indelebile nella coscienza collettiva del popolo romagnolo: l’azdora. Diventata sostanzialmente un’icona della cultura locale, l’azdora “regina del focolare” ritorna spesso nei racconti e nei ricordi di un mondo (e di una Romagna) che fu. Da dove nasce, dunque, questa figura? E cosa rappresentava al tempo di una Romagna diversa, caratterizzata non dal turismo di massa ma dalla più genuina cultura contadina?
Origini dell’azdora
Per andare alla scoperta della figura dell’azdora occorre partire innanzitutto dal suo stesso nome.
“Azdora” è un termine che rappresenta la trasposizione femminile di “azdor”, che indicava letteralmente “il reggitore”, ovvero colui che portava su di sé la responsabilità della famiglia. Il capofamiglia, per intenderci. Da questo deriva che l’azdora era in sostanza “la reggitrice”, ovvero colei che, assieme all’uomo, aveva dei compiti per mantenere e portare avanti la vita familiare.
L’elemento curioso, infatti, è che in epoca contadina la famiglia era vista come una sorta di “azienda domestica”, in cui ogni componente aveva dei compiti precisi e ben individuati. Così, mentre l’uomo si occupava del lavoro che garantiva il guadagno necessario alla sussistenza, l’azdora si occupava dell’amministrazione della casa, ponendosi alla guida delle altre “donne della famiglia”, provvedendo alla spesa e a tutto ciò che era necessario alla vita familiare. Nella forma, il capofamiglia era l’uomo, ma nella sostanza era l’azdora il reale pilastro della famiglia: se è vero, infatti, che il marito portava a casa il denaro, è altrettanto vero che era lei ad amministrarlo e utilizzarlo nel modo più virtuoso possibile.
Un impegno incredibile, che si sostanziava in una vita fatta di sacrifici e grande operosità: per capirne la reale portata, dobbiamo abbandonare la percezione che abbiamo della società e delle famiglie attuali, e immaginarsi nuclei familiari che all’epoca erano facilmente costituti da 7-8 persone, tutte da accudire e seguire. E non solo. Spesso poteva accadere, infatti, che l’azdora collaborasse attivamente al lavoro del marito.
Pensiamo, ad esempio, ai pescatori: quando l’uomo tornava dal mare col pescato, l’azdora poteva recarsi al molo per recuperare il pesce e portarlo al mercato del paese o dei paesi vicini, assieme ai prodotti del proprio orto o del proprio allevamento. Poi, con il ricavato di questi commerci, l’azdora provvedeva alla spesa, acquistando tutto ciò che poteva servire alla famiglia. Ed è proprio da qui che nasce la profonda tradizione culinaria della Romagna: questa attività, infatti, rendeva l’azdora una custode, la depositaria di tutti i segreti, le ricette, le curiosità della tavola, del buon mangiare “alla romagnola” che caratterizza il nostro territorio ancora oggi, in Italia e non solo.
La buona tavola e i “rituali”
È proprio dal contesto culinario che emerge la tipica immagine dell’azdora famosa al giorno d’oggi, che nella tradizione spesso si unisce a quella delle “sfogline”, le donne esperte nel realizzare la pasta (anche se sono figure ben distinte e separate). Armata del suo “sciaddur”, il mattarello, preparava tutti i piatti della più genuina tradizione, dai più famosi (tortelli, cappelletti, ravioli, garganelli, passatelli, tagliatelle, tagliolini, strozzapreti, zuppe, gnocchi e gnocchetti), a quelli meno conosciuti, o addirittura dimenticati, come i ‘bigul’ o bigoli, i ‘zavardòn’, i ‘voltagabàna’, gli ‘ingannapuret’, i maltagliati, i malfattini, i ‘giugètt’ o giogetti, i ‘curzul’ (lacci da scarpe, preparati con lo scalogno).
E ancora: i quadrelli, i ‘strichètt’, gli orecchioni, la ‘spoja lorda’ (“minestra sporca” di formaggio che rimaneva dal ripieno dei cappelletti o dei tortelli), i ‘sbrofabérba’, i ‘tajadlòtt’ e altre ancora meno note. Tutti piatti che oggi è possibile trovare sostanzialmente solo nelle tante fiere e sagre locali che illuminano e colorano le estati dell’entroterra romagnolo ogni anno, ultime vere depositarie di tante tradizioni di questa terra.
Infine, l’importanza della figura dell’azdora emerge chiaramente dai “rituali” che le spettavano. In che senso? Facciamo un esempio, per intenderci: nel passaggio da un podere all’altro, la tradizione vuole che fosse lei che, per ultima, staccava la catena dal camino, punto focale e simbolo della casa, del focolare. Reggendola in mano saliva sul carro che l’avrebbe portata alla nuova abitazione. Qui, come primo gesto, attaccava la catena come simbolo della presa di possesso della nuova abitazione. Tradotto: l’elemento più simbolico del cambiare casa era affidato all’azdora, e non al marito.
Segno inequivocabile di quale fosse, in concreto, il vero pilastro della vita familiare.