Inaugurato il ROF. Per La Fura dels Baus, ne Le siège de Corinthe, la guerra fra Greci e Turchi si combatte a colpi di bottiglie d’acqua
PESARO, 10 agosto 2017 – La lotta per l’oro blu, come viene definita l’acqua da quando si è presa coscienza del suo insostituibile valore per il genere umano: questa è la causa del conflitto alla radice de Le siège de Corinthe, secondo la rilettura della Fura dels Baus.
Lo spettacolo che ha inaugurato la ventottesima edizione del ROF (dedicata alla memoria di Alberto Zedda, scomparso il 6 marzo, fra i massimi artefici della Rossini renaissance e delle fortune del festival pesarese) si svolge in una scena pressoché fissa: una terra secca solcata da crepe, su cui si erigono muri formati di bottiglie d’acqua accatastate. Nei filmati (di Lita Cabellut, autrice anche dei costumi) scorrono invece le immagini di come l’oro blu venga spesso maltrattato dall’uomo, con tutte le conseguenze del caso. Il conflitto di civiltà che è alla base dell’opera – greci versus turchi, nel libretto – viene solo adombrato con qualche allusione alle varie etnie, raffigurate da sagome umane ritratte in pannelli luminosi: a dimostrazione di come la contesa per l’acqua travalichi qualsiasi identità nazionalistica.
Nata per il pubblico francese come rifacimento del Maometto II, questa ‘tragédie lyrique’ – era ancora presto per parlare di ‘grand opéra’ – andò in scena a Parigi nel 1826. Al festival pesarese Le siège de Corinthe era approdata soltanto una volta, nel 2000, in un memorabile spettacolo firmato da Massimo Castri: una versione, però, ancora priva delle più recenti acquisizioni musicologiche. La nuova edizione critica, proposta adesso, reintegra pagine espunte dallo stesso Rossini alla vigilia della première francese: molto sostanzioso è l’ampliamento del blocco del divertissement, nel secondo atto, con la sua splendida musica. Peccato che il regista e autore delle scene Carlus Padrissa abbia deciso di animare l’ultima parte con una lotta – anche piuttosto cruenta – fra turchi e greci, senza che questa scelta trovi giustificazioni musicali.
Nello spettacolo non mancano però felici intuizioni, soprattutto riguardanti la coppia d’innamorati: l’autentico sentimento amoroso che Pamyra prova per Mahomet II (da lei conosciuto sotto mentite spoglie) continua anche dopo la scoperta della sua vera identità, con un ultimo struggente amplesso prima del precipizio finale. La regia, inoltre, ha il pregio di non deconcentrare gli interpreti, che già devono affrontare un compito arduo, dovendo destreggiarsi con una vocalità impegnativa dove il declamato arioso presenta, forse, ancora più insidie dell’aria vera e propria.
Il cast, nell’insieme abbastanza omogeneo, aveva il suo punto di forza nel soprano Nino Machaidze, che disegna una Pamyra plastica ed espressiva, lacerata fra il suo colpevole amore per il sultano e l’affetto filiale per il padre che guida la resistenza di Corinto. Accanto a lei, Luca Pisaroni affronta il personaggio di Mahomet con convinzione, nonostante una scrittura – nominalmente da basso – per lui troppo grave. In crescendo nel corso dei tre atti, il tenore Sergey Romanovsky ha disegnato un Néoclès più interiorizzato che eroico, via via più convincente sul piano espressivo e a suo agio su quello vocale. L’altro tenore, John Irvin, ha interpretato un valido Cléomène, conferendo il giusto equilibrio fra gravità e macerazione alla figura del padre di Pamyra. Nei panni del guardiano dei sepolcri Hiéros, e dunque in un ruolo statutariamente da basso profondo, Carlo Cigni ha invece evidenziato un’emissione piuttosto scompaginata. Ismène, confidente della protagonista, era il mezzosoprano Cecilia Molinari, dalla presenza vocale non troppo incisiva.
Roberto Abbado ha diretto l’ottima Orchestra Sinfonica Nazione della Rai – che da quest’anno sostituisce quella del Comunale di Bologna – mantenendo un impeccabile rigore ritmico e una precisione millimetrica del gesto, nonostante il braccio destro al collo. Se certe volte questo rigore ha finito per anestetizzare le passioni (e l’olimpico ma mai freddo Rossini non ne sarebbe troppo soddisfatto), esso si è rivelato assai più congruo nel lungo intervento strumentale del secondo atto, sempre molto ben scandito ritmicamente. Una vera sorpresa, poi, è arrivata dai coristi del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno (preparato da Giovanni Farina), al suo debutto pesarese: perfettamente appiombati quanto ad amalgama e intonazione, sono anche riusciti a destreggiarsi con sicurezza in scena. E, si sa, è un impegno oneroso animare l’ampia sala dell’Adriatic Arena.
Giulia Vannoni