Home Attualita In Kenya è in atto un disastro educativo

In Kenya è in atto un disastro educativo

padre renato kizito sesana la pandemia in kenya

Un pubblico attento e curioso ha accolto, lo scorso martedì 26 ottobre, al Teatro Marilena Pesaresi di San Lorenzo in Correggiano, padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano, giornalista, già direttore di ‘Nigrizia’ e tra i fondatori dell’associazione Amani. Da anni è voce dei bambini di strada di tante comunità Koinonia in Kenya, Zambia e Sudan.

Vivere con la pandemia in Africa, questo il tema su cui è intervenuto, con la moderazione di Francesco Cavalli, amministratore del Gruppo Icaro.

Una pandemia che colpisce in modo diseguale le Nazioni Africane e che, secondo il ‘Weekly bulletin on outbreaks and other emergencies’ pubblicato dall’Ufficio regionale per l’Africa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è in aumento e porta il numero totale di casi confermati di Covid-19 nel continente africano a oltre 5 milioni. Nonostante questo, però, le cifre attuali in Africa (che comprende circa il 17% della popolazione mondiale), mostrano che le infezioni, se confrontate con il resto del mondo, sono relativamente poche: il 2.9% dei casi globali e il 3.7% delle morti globali.

renato kizito sesana missionario combonianoKizito qual è stato l’impatto della pandemia in Kenya, un paese che lei conosce molto bene?

“In Kenya, che ha reagito immediatamente all’annuncio della pandemia, ci si aspettava una catastrofe, un’ecatombe, visto quello che stava accadendo in Italia e in Europa in quei mesi di marzo – aprile 2020. Questa ecatombe per fortuna non c’è stata, non ci sono state le migliaia di morti che si prevedevano negli slum (quartiere urbano di abitazioni sordide e malsane, privo di adeguati servizi igienici e sociali) di Nairobi e di tutto il paese. Certo, le vittime ci sono state, ma in numero estremamente limitato rispetto all’occidente. Invece c’è stato un disastro economico terrificante”.

Che cosa è successo?

“La ricaduta economica è stata enorme. Ad esempio, in Kenya, è crollato il turismo, che conta il 20% nell’economia del pease. Per mesi c’è stato un coprifuoco continuo tra le 8 di sera e le 5 del mattino, che poi si è allentato fino alle 4, ma che ha comunque bloccato gran parte dell’economia del paese. Ma il disastro più grande, con conseguenze devastanti per il futuro, è il blocco dell’istruzione. Le scuole sono rimaste chiuse dai primi di marzo dello scorso anno fino ai primi di gennaio di quest’anno. I ragazzi hanno perso un intero anno scolastico.

Un’intera generazione è stata tagliata fuori. Molti degli studenti che andavano a scuola prima della pandemia, alla fine non sono ritornati, perché le famiglie non avevano i soldi neanche per pagare l’uniforme scolastica, tantomeno la retta o i costi della scuola. Altri, invece, durante il periodo della pandemia, hanno imparato a vivere facendo altri lavoretti e a quel punto non potevano più permettersi di tornare a scuola.

Per chi è tornato, invece, c’è la difficoltà di dover affrontare tre anni scolastici nel tempo in cui ne avrebbero dovuti fare due. Sono compressi e sotto stress, senza più vacanze, con una settimana di stop tra un anno accademico e l’altro. Ovviamente anche la qualità dell’educazione è crollata di molto”.

Una situazione davvero difficile. C’è qualche via di uscita?

“I problemi non mancano. Dalla mia esperienza personale ho visto aumentare il numero di suicidi tra i giovani.

Sono ragazzi e ragazze di 25, 30 anni che avevano cominciato a formarsi una famiglia, un lavoro, e si sono trovati dall’oggi al domani a non avere più niente. Anche negli slum le persone sono state colpite in modo grave. Sono stati i primi a perdere il lavoro e a ritrovarsi senza niente. C’è stato un periodo di fame per gli abitanti. Ma in mezzo a questa negatività c’è stato un elemento positivo, almeno lo voglio vedere.

La pandemia ha mostrato a molti giovani che si stava meglio nei villaggi invece che negli slum. Sono stati meglio quelli che avevano un campo, che hanno potuto fare un po’ di agricoltura e sopravvivere in modo molto semplice con qualcosa da mangiare. Non parliamo di un ritorno ai villaggi in una forma molto visibile, ma si è innescato un piccolo movimento di ritorno nei luoghi e nelle comunità in cui la vita in caso di difficoltà è più vivibile”.