Al Teatro dell’Opera di Roma I Capuleti e i Montecchi di Bellini in un nuovo allestimento di Denis Krief che lascia protagonista la musica
ROMA, 4 febbraio 2020 – Una cornice lignea, quasi una scatola sonora, che subisce solo piccole modificazioni e – cosa davvero rara – si trasforma in sincrono con l’andamento musicale. Il nuovo allestimento dell’Opera di Roma dei Capuleti e i Montecchi, affidato a Denis Krief che firma come sempre regia, scene, costumi e luci, ha dimostrato un grande rispetto per l’opera di Bellini. Nonostante il soggetto reso immortale da Shakespeare, nel libretto di Felice Romani viene conservata solo la traccia essenziale della vicenda, per privilegiare invece le dimensioni psicologiche e sentimentali dei protagonisti: caratteristiche che la musica amplifica, in sintonia con la nuova stagione romantica.
È ovvio, dunque, che agli interpreti si richiedano grandi doti interpretative. Nel cast, omogeneo e affiatato, spiccava il soprano Mariangela Sicilia: eroina emozionante e fragile, tormentata da sentimenti contrastanti (rispetto dei doveri filiali e attrazione verso il suo innamorato), capace di affrontare il personaggio di Giulietta con impeccabile precisione vocale e sempre ottima gestione dei fiati. Romeo, invece, è concepito ancora come ruolo en travesti: una scelta che potrebbe dare la sensazione di orologio spostato all’indietro (tanto più che nel 1830 il compositore aveva già alle spalle esperienze ben più innovative, come Il pirata), mentre in questo modo Bellini riesce a imprime al personaggio un carattere adolescenziale difficile da ottenere attraverso una più realistica vocalità maschile. Sempre molto espressiva, il mezzosoprano Vasilisa Berzhansaya è apparsa del tutto convincente sul piano scenico e interpretativo, pur con il limite di qualche disomogeneità vocale negli affondi più gravi.
Il tenore peruviano Iván Ayón Rivas ha affrontato il personaggio di Tebaldo, rivale di Romeo, con voce sicura, emissione facile, squillante, a tratti persino spavalda in relazione a un innamorato che resta un perdente. Il libretto prevede due soli altri personaggi. Lorenzo – che in questo spettacolo, come pure in molti altri, indossa l’abito talare, ma nominalmente sarebbe un medico – era interpretato da Nicola Ulivieri: nonostante un certo logoramento vocale, ha saputo disegnare una figura paterna, cui Giulietta si affida in mancanza di ogni dialogo con il genitore biologico. Il vero padre della protagonista, Capellio, era invece incarnato da Alessio Cacciamani: inflessibile e anaffettivo, come vuole il suo ruolo, sostenuto da una notevole solidità di emissione.
Ben corrisposto da strumentisti e interpreti, Daniele Gatti, che da quando è arrivato all’Opera di Roma sembra aver intrapreso una nuova vita artistica, è stato il protagonista di un’interessante e pregevole lettura. Ha affrontato il primo atto senza timore di enfatizzarne la costruzione a pezzi chiusi (oltre tutto frutto di numerosi autoimprestiti da parte di Bellini, dato che molte melodie provengono dalla sua sfortunata Zaira), ma senza eccedere nemmeno in preziosità – le variazioni dei ‘da capo’, pur avendo a disposizione interpreti in grado di supportarle, sono state sempre molto sobrie – e privilegiando invece l’intensità espressiva, anche grazie alla minuziosa attenzione dedicata ai recitativi. È poi riuscito a valorizzare al meglio le splendide melodie su cui è costruita la seconda parte dell’opera, e che rappresentano uno dei tratti distintivi del linguaggio belliniano, attraverso sonorità riconducibili a quella marmorea classicità sviluppata solo nella parte conclusiva: vera e propria bussola di tanti altri titoli del compositore.
La quadratura del cerchio arrivava infine dal contributo di Krief, la cui regia ha il grosso pregio di lasciare protagonista davvero la partitura. Nel primo atto i seguaci delle due famiglie antagoniste ricordano, per abiti e atteggiamenti, l’Italia del dopoguerra, quella consegnataci soprattutto dal cinema: il sottofondo di aggressività e violenza è leggibile non solo dalla facilità con cui si maneggiano le armi, ma in un filo spinato che allude a un conflitto ancora in atto. E davvero bellissima è l’ultima parte, grazie a una scena di trasparente rarefazione. La tragedia assume così una dimensione intima, non più contaminata da ragioni di appartenenza politica, e raggiunge vertici d’intensa poesia. Solo una croce nella parete di fondo e, su un lato, la tomba dove giace Giulietta. In questo spazio semivuoto la musica di Bellini risuona in tutto il suo meraviglioso incanto.
Giulia Vannoni