Demetrio e Polibio opera giovanile di Rossini riproposta a Pesaro nell’allestimento di nove anni fa firmato da Davide Livermore
PESARO, 18 agosto 2019 – Un ‘dramma serio’ che appare un po’ spiazzante se confrontato con i futuri capolavori rossiniani. All’ascolto Demetrio e Polibio dà l’impressione di un lavoro poco coeso e con una certa disomogeneità musicale (è subito evidente come alcune pagine non siano uscite dalla penna del compositore). Il primo lavoro del giovane Rossini – che all’epoca aveva diciotto anni e non tredici, come vuole invece la leggenda – rivela più di una sfilacciatura drammatica: un peccato da cui, comunque, può essere pienamente assolto un esordiente.
Del resto, non va in aiuto di Rossini nemmeno il libretto con l’esile vicenda configurata da Vincenzina Viganò Mombelli (madre delle due cantanti che furono anche le prime interpreti dell’opera): un po’ troppo macchinosa per giustificare l’immancabile lieto fine, conseguenza – come vogliono le convenzioni – di una duplice agnizione. Per i quattro personaggi, il giovane compositore si è affidato alla tradizionale articolazione in soprano, contralto en travesti, tenore e basso: impegnandoli però in una scrittura vocale che talvolta appare ai limiti dell’eseguibilità.
L’opera – ovviamente in edizione critica e con l’aggiunta, nel secondo atto, di un quartetto recentemente acquisito – è tornata sul palcoscenico del ROF, riproposta nello stesso allestimento con cui aveva debuttato nel 2010: uno spettacolo di Davide Livermore ripreso da Alessandra Premoli, che si avvale della preziosa collaborazione, per le scene e i costumi (tutto si svolge in un backstage teatrale), dell’Accademia di Belle Arti di Urbino. Rivisto a distanza di anni, l’allestimento appare nell’insieme abbastanza macchinoso: ogni personaggio ha il suo doppio e se, da un lato, queste presenze consentono talora effetti suggestivi, dall’altro aggiungono ulteriore artificiosità a un’opera che già ne soffre. Viene anzi il dubbio che alcuni effetti distraenti siano accuratamente voluti, proprio nell’intento di creare un diversivo (ad esempio l’animazione della sinfonia, peraltro non di mano rossiniana): si ha così l’impressione che, forse, il primo a non credere troppo nella qualità di Demetrio e Polibio sia proprio il regista.
Molto più convinti invece appaiono i quattro interpreti, chiamati ad affrontare una fatica davvero improba. Nei panni di Lisinga, il soprano Jessica Pratt ha sfoderato tutte le sue risorse di virtuosa belcantista. Purtroppo l’azzardata scrittura vocale, tutta di sbalzo, del giovanissimo Rossini la costringe a misurarsi con escursioni altimetriche che, soprattutto nell’aria di furore del secondo atto, mettono davvero a dura prova il controllo dell’emissione. Anche il tenore Juan Francisco Gatell, in un ruolo in cui convivono affetto paterno e spietatezza regale, è dovuto venire a capo di non minori difficoltà, affrontate con sicurezza seppure con qualche penalizzazione nella qualità del suono. Più tranquilla la vocalità di Siveno, alias Demetrio: il mezzosoprano Cecilia Molinari, sempre corretta e misurata. Nobile e morbido, sebbene non timbratissimo, il Polibio del basso Riccardo Fassi chiude questo avviluppato quadrilatero di padri e figli.
Il Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini (preparato da Mirca Rosciani) ha dato un contributo lodevole anche sul piano scenico. E a Paolo Arrivabeni, sul podio della Filarmonica Gioachino Rossini, spetta il merito di una lettura scorrevole e fluida dell’opera, ottenuta puntando soprattutto su un’apprezzabile varietà dinamica.
Giulia Vannoni