Il grido di fede paolino «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20) aiuta a comprendere il senso delle vesti liturgiche, che si distinguono dalle vesti comuni maschili. Il loro scopo è manifestare esteriormente il compito proprio di ogni ministro nella celebrazione dell’Eucaristia (Ordo Generale del Messale Romano, 335): dal papa all’ultimo chierichetto.
Focalizzando oggi la nostra attenzione sui soli presbiteri (vescovo e preti), le vesti sacre che indossano manifestano quindi il loro compito (munus) di celebrare in Persona Christi, nel senso che è Cristo stesso, in loro, che offre se stesso. Essi non celebrano quindi a titolo personale, ma la loro persona passa in secondo piano, cioè diventa come il vetro di una finestra: quanto meno si vede, tanto meglio svolge la sua funzione. Le vesti sacre aiutano perciò sia i fedeli a vedere in essi Cristo e a non restare fissati sulla personalità del sacerdote (quanti ancora scelgono la Messa in base alla simpatia/antipatia del prete!), sia gli stessi presbiteri che nell’indossarle si rendono meglio conto che stanno “prestando” anima e corpo, mente e cuore, libertà e gesti a Cristo. Per questo è importante permettere al sacerdote di vestirsi in sacrestia con raccoglimentoe non “tallonarlo” fino all’ultimo istante prima della Messa con una sfilza di richieste. È essenziale che egli prenda coscienza e viva con fede quel cambio d’identità che il dono del sacerdozio gli chiede inesorabilmente di compiere in ogni Eucaristia.
Ma quali sono le vesti sacre e perché quelle anziché altre? Anzi tutto è da sapere che le forme delle vesti liturgiche non hanno radici ebraiche, ma romane; non provengono dalle prescrizioni mosaiche (Es 28.39), ma dagli abiti civili greco-romani, poiché nei primi secoli i cristiani si guardavano bene dal non confondere il sacerdozio di Cristo con l’antico sacerdozio di Aronne, che non poteva più salvare. Pertanto, fino al VI sec. i presbiteri per la celebrazione dell’Eucaristia vestivano vesti civili e, per riverenza verso i sacri misteri, curavano che fossero quelle migliori (Girolamo, Clemente d’Alessandria) e le più pulite, per cui erano destinate solo alla liturgia (oggi diremmo “i panni buoni”). Al proposito, papa Celestino I (V sec.) dovette intervenire contro alcuni vescovi della Gallia perché avevano introdotto delle singolarità nell’abito: «I pastori – scriveva – devono distinguersi per dottrina non per la veste, per la condotta non per l’abito, per la purezza della mente e non per l’ornamento esteriore»; mentre altri vescovi, al contrario, dovevano prendere provvedimenti contro certi presbiteri che celebravano l’Eucaristia con vesti sciatte (e sporche).
Ma come vestivano i romani nei primi secoli del cristianesimo? Diciamo che un romano vestito per bene portava una tunica lunga fino ai piedi (talare, da talus = tallone), in genere bianca (=alba), su cui indossava una dalmatica (una specie di poncho aperto ai lati, oggi indossata dal diacono) o una paenula (una tunica più corta di lana con il cappuccio per il freddo) o una lacerna (specie di scialle) o una toga per le grandi occasioni. Si narra che Agostino, per esempio, vestiva una tunica con una specie di lacerna.
Da qui, l’origine delle principali vesti sacre che tutt’oggi indossano i nostri preti:
* il camice (o alba), la veste comune a tutti i ministri ordinati e istituiti (ORMR, 336), pronipote della tunica; bianca, perché segno della gloria di Dio celebrata nell’Eucaristia a cui ognuno partecipa e che il ministro serve. Quando il camice lascia intravvedere l’abito civile o comune è indossato anche l’amitto (da amb-jactus = gettato intorno), un mantellino bianco che avvolge il collo.
* La casula (o pianeta, dalla paenula romana, che dal V secolo è chiamata planeta), sinonimo di casupola, piccola casa, perché avvolge tutto il corpo, come una tenda; è la veste propria del sacerdote perché segno che “indossa Cristo” nella cui persona agisce (OGMR, 337).
Sul camice e sotto la casula c’è la stola (dal greco stolé= sopravveste), una specie di sciarpa intorno al collo che scende sul petto (e in diagonale per il diacono), insegna propria dell’ordine sacro, poiché indica la caratteristica propria di chi la indossa: l’essere il sacerdote (o il servo = diacono) della mensa.
La loro nobile bellezza traspare più nella forma, nella materia (lino, cotone, oro, argento) e nei colori liturgici (rosso, bianco, verde, viola), che nelle immagini con cui possono essere decorate (OGMR, 344); anzi, se le vesti sono leziose o, al contrario, sciatte, possono oscurare, anziché rivelare il loro significato simbolico.
Con i loro colori manifestano anche i misteri della fede celebrati e il senso della vita cristiana lungo l’anno liturgico (OGMR, 345; v. Catechesi 3: I Colori liturgici). Non sono solo sante, perché benedette prima di usarle (OGMR, 335), ma addirittura sacre, perché destinate alla divina liturgia (come i vasi e gli arredi), quasi fossero le vesti di Dio. Usarle per usi profani è quindi riprovevole (Liturgicae instaurationes, 8). Le Conferenze Episcopali possono chiedere adattamenti idonei agli usi e ai costumi delle diverse culture (OGMR, 342); in ogni caso, le vesti devono contribuire alla bellezza dell’azione sacra e non oscurarla (OGMR, 335).
Veniamo alla consueta applicatio ad vitam, oggi declinata con due immagini, utili tanto ai fedeli quanto ai sacerdoti. Ho visto missionari indossare camice e casula con più di 40° di caldo, con il sudore che gli grondava dai lembi del camice e ho visto preti morire di freddo perché il camice non s’infilava sul giubbotto: credo sia giusto essere riconoscenti e ogni tanto esprimere gratitudine di fronte ai piccoli-grandi sacrifici che compiono i celebranti. La seconda immagine la colgo dal “magistero dei gesti” del nostro vescovo Francesco: è capitato quasi a tutti di vederlo in Duomo, prima di una celebrazione, nella cappella adibita a sacrestia, in ginocchio davanti alla croce, in silenzio, prima di indossare le vesti sacre.
Elisabetta Casadei
* Le catechesi liturgiche si tengono ogni domenica in Cattedrale alle 10.50 (prima della Messa).