Se malattie e pestilenze si potessero definitivamente debellare, sarebbe una buona notizia! Se l’uomo smettesse di opprimere e sfruttare l’altro uomo, anche questa sarebbe una buona notizia! Se gli scienziati trovassero finalmente la Gut (Grande Teoria dell’Unificazione), la natura rivelerebbe la Sapienza che la sostiene e non avrebbe più segreti: sarebbe la terza buona notizia! Se tutti potessero avere cibo, istruzione, casa, lavoro… anche questa sarebbe davvero una buona notizia! Se si potesse trovare il senso per cui vivere e non suicidarsi di fronte al vuoto di questa vita o alla disperazione: sarebbe la quinta buona notizia! Se l’uomo potesse inoltre guarire dalla “frustrazione della morte”, che lo fa vivere come un toro in un’arena, sarebbe un’ottima notizia! Se si potesse essere davvero felici in questa vita, sarebbe allora la più bella, l’ultima, la settima, buona notizia!
Come l’autore dell’Apocalisse anche noi dovremmo piangere e disperarci, perché nessuno può darci queste buone notizie; nessuno cioè è in grado di aprire i Sette sigilli che serrano il libro della Vita e del senso della Storia: «Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo» (Ap 5,4). Davanti a san Giovanni stava però un Agnello immolato, che preso il libro dalla destra di Dio, iniziò a rompere – uno per uno – i Sette sigilli (Ap 5-21). Questa è la buona notizia! Il Vangelo (dal greco Eu-anghelion = buona notizia) che Cristo ha vinto il male fino in fondo ed è ritornato dalla morte! Sì, non è marcito come tutti gli altri!
Il Vangelo è il «culmine della Liturgia della Parola» nella Messa (Ordo Generale Messale Romano, 60), perché centro e vertice della storia della Salvezza iniziata da Dio per l’uomo, cioè la chiave che apre l’Antico Testamento e penna che scrive il Nuovo.
La sua proclamazione è quindi circondata da una maestosa riverenza: è tratta da un libro liturgico a parte, l’Evangeliario (vedi Catechesi: Evangeliario, n.38), innalzato, incensato e baciato; compiuta non da un lettore qualsiasi, ma da un ministro ordinato, cioè configurato per grazia a Cristo (sacerdote o diacono), che non comincia però senza aver prima invocato la purificazione del cuore o chiesto la benedizione (Benedicimi padre – Il Signore sia nel tuo cuore); tutti l’acclamano con parole di lode (Alleluia, v. Catechesi, n.37) e l’ascoltano ritti in piedi (OGMR, 60.133; Ordo Letture Messa, 17).
«All’ambone il sacerdote apre il libro», precisa l’OGMR, 134. Una nota apparentemente inutile, se non fosse per il suo riferimento alla realtà narrata simbolicamente dall’Apocalisse, in cui Cristo «apre il libro e i suoi sette sigilli» (Ap 5,5).
Ma ciò che accade durante la proclamazione del Vangelo, non è solo l’annuncio di una buona notizia (i gesti e la parole di Gesù che indicano la vittoria sul male): è Cristo stesso che parla al suo popolo radunato! Non si tratta della lettura di un documento di cronaca o di un insegnamento, ma è Lui stesso che parla ai suoi discepoli; non il sacerdote che parla in Persona Christi, ma Christus in persona! «Nella liturgia Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il suo Vangelo» ci ricorda il Concilio (Sacrosanctum Concilium, 33).
Ce lo attesta di nuovo la liturgia, che prima di proclamare il Vangelo, fa dire al sacerdote: «Il Signore sia/è con voi», proprio per richiamare con forza l’attenzione dei fedeli sulla presenza di Cristo all’ambone. E ancora nel fargli annunciare: «Dal Vangelo secondo…», per dire che non stiamo per ascoltare Matteo, Marco, Luca o Giovanni, ma ben di più: Cristo stesso, che parla con i concetti e le immagini dei quattro evangelisti.
Per questo il Libro dei Vangeli è in quel momento incensato: è l’omaggio a Cristo ancor prima che pronunci una parola (OGMR, 134; 175); lo stesso gesto dei Magi che, visto il bambino, lo riconobbero degno dei profumi d’Arabia. Un gesto antichissimo (VII sec.), che precede addirittura l’incensazione dell’altare (IX sec.).
L’attenzione e l’importanza del momento sono così alte che la sapienza liturgica della Chiesa, dal XI secolo, offre anche un gesto che accompagni le parole del sacerdote: il triplice segno di croce sulla fronte, sulle labbra e sul petto e che il sacerdote compie anche sul Libro dei Vangeli (OGMR, 143). Con esso tutto il popolo (sacerdote compreso) si dispone a essere illuminato nell’intelligenza, nelle parole e nel cuore (sentimenti, volontà e libertà) dalla luce del Vangelo, ricordando anche il proprio sigillo battesimale che lo ha configurato come un alter-Christus, cioè un cristiano. Chi lo proclama, inoltre, consacra mente, lingua e cuore a Dio, perché nella sua, risuoni veramente la voce di Cristo.
Dovrebbe essere ormai chiaro anche il motivo per cui al termine del Vangelo il sacerdote non dice «Parola di Dio», ma «Parola del Signore» (OGMR, 134). «Dio, che aveva parlato in tempi antichi molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti, oggi ha parlato a noi mezzo del Figlio» (Eb 1,1) e Lui solo permette di comprendere tutte le Letture finora ascoltate.
L’assemblea conferma questa fede e manifesta la sua gioia con la lode (Lode a Te, o Cristo, OGMR, 59), mentre il sacerdote bacia l’Evangeliario a nome della Sposa (OGMR, 134).
L’applicatio ad vitam oggi ce la offre un noto scrittore, Georges Bernanos: «Cristiani, dove diamine nascondete la gioia?».
Elisabetta Casadei