“Prometeo Tragedia dell’ascolto” di Luigi Nono proposto al Teatro Farnese nella stagione del Regio
PARMA, 27 maggio 2017 – Un’esperienza da fare almeno una volta. Che può trasformarsi in un percorso interiore, alla scoperta del suono e della sua stessa negazione: il silenzio.
Prometeo. Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono sfugge a tutte le classificazioni musicali: per più di due ore l’ascoltatore rimane inchiodato a un materiale sonoro che lo costringe a riflettere sul senso della percezione acustica e su come questa si trasformi nel tempo. Si può scegliere, allora, se farsi guidare dalla drammaturgia del libretto di Massimo Cacciari, oppure abbandonarsi alle molteplici suggestioni che provengono dall’ambiente. È sufficiente infatti tendere l’orecchio verso uno dei gruppi strumentali per avvertire continui mutamenti di profondità sonora e, allo stesso tempo, affidarsi agli effetti di eco, e poi perdersi nell’intricato labirinto generato dai suoni.
Lasciate alle spalle le esperienze precedenti, legate alla sperimentazione, Nono ha realizzato con Prometeo un’opera d’incredibile fascino. Nella sua sottilissima trama musicale ciascuno può percepire non solo reminiscenze della natura e innumerevoli suggestioni vocali (dal canto dei monaci agli effetti dei cori battenti della basilica di San Marco): li può seguire nelle loro progressive trasformazioni, fino a quella rarefazione che conduce poi al silenzio. Sono, dunque, l’inquietante singolarità di ogni ascolto e l’inafferrabilità legata ai mutamenti delle condizioni ambientali a far precipitare Prometeo in tragedia, assai più del soggetto mitologico invocato dal libretto.
Dopo la prima veneziana del 1984, diretta da Claudio Abbado (ma, nonostante i quattro lunghi anni di gestazione, la stesura definitiva è dell’anno successivo), Prometeo ha avuto numerose esecuzioni in Europa, però non in Italia: così è apparso ancor più prezioso il suo inserimento nel cartellone del Regio di Parma. Anche la scelta di una cornice come la struttura rinascimentale del Teatro Farnese (che suggerisce qualche analogia con la cavea lignea realizzata da Renzo Piano in occasione della prima) ha contribuito alla valorizzazione di questa esperienza.
Pubblico seduto al centro dello spazio, con i quattro i gruppi orchestrali collocati ai vertici di una croce latina (un’ottantina di metri separavano i due insiemi lungo l’asse maggiore!) e disposti, in verticale, ad altezze diverse. Agli strumentisti e ai cantanti si sono aggiunti i lives elettronics per la spazializzazione del suono, realizzata attraverso avvolgenti effetti di eco. Ma da quando si riesce a controllare al computer ogni minima variabile sonora, quello che più di trent’anni fa sembrava un avanguardistico apparato tecnologico oggi corre il rischio di apparire obsoleto. Tuttavia, se a manovrare i pulsanti ci sono due storici “ingegneri” del suono come Alvise Vidolin e Nicola Bernardini (supportati da altri quattro collaboratori), l’elettronica recupera il suo fascino pionieristico e ripropone, intatto, quell’aspetto artigianale che l’avvicina ai suoni generati da strumenti tradizionali.
Dell’imponente organico musicale facevano parte l’Ensemble Prometeo, la Filarmonica Toscanini, il Coro del Regio di Parma – solo dodici elementi, come sempre ben preparati da Martino Faggiani – e cinque encomiabili solisti di canto: i soprani Livia Rado e Alda Caiello; i contralti Katarzyna Otczyc e Silvia Regazzo; il tenore Marco Rencinai. A loro si sono aggiunti, come voci recitanti, i due bravi attori Sergio Basile e Manuela Mandracchia, con il compito di dar voce a un libretto che si serve di tre lingue (greco, italiano e tedesco) per fondere testi che dall’antica Grecia sconfinano nella filosofia germanica. Sul podio l’ottimo – per rigore, precisione e profonda adesione emotiva – Marco Angius, uno dei direttori di musica contemporanea oggi più accreditati. A coadiuvarlo validamente Caterina Centofante: in uno sforzo titanico, commisurato all’eccezionalità dell’impresa.
Giulia Vannoni