Al Comunale di Bologna inaugurata la stagione d’opera con un nuovo e concettuale allestimento dello straordinario capolavoro di Wagner
BOLOGNA, 24 gennaio 2020 – Città wagneriana più di ogni altra in Italia, Bologna ha tenuto a battesimo nel nostro paese ben cinque opere del compositore tedesco. E se nel corso degli anni questa frequentazione si è molto rarefatta, per recuperare il tempo perduto c’è adesso l’intenzione d’inaugurare le future stagioni del Comunale con un titolo di Wagner scelto in questa rosa. Il sipario 2020 si è così alzato sul massimo capolavoro, Tristan und Isolde: affidato alla bacchetta di Juraj Valčuha, ospite abituale del teatro bolognese (sarà ancora lui a farsi carico delle prossime esecuzioni wagneriane), e a uno spettacolo – frutto di una collaborazione con Bruxelles, dove è andato in scena lo scorso maggio – del cineasta Ralf Pleger, che ha condiviso l’ideazione artistica con Alexander Polzin, famoso artista visivo, Wojciech Dziedzic, autore dei geometrici costumi, e John Torres, delle luci.
Commenti entusiastici del pubblico alla première e tali da far pensare che per molti si trattasse del primo incontro con quest’opera: abbastanza strano fra chi – soprattutto gli spettatori meno giovani – avrebbero dovuto avere ben vivo il ricordo dell’ultima (e indimenticabile) edizione sul palcoscenico bolognese, quando nel 1996 a guidare l’orchestra era stata la bacchetta di Christian Thielemann e la regia, seppure postuma, recava la firma leggendaria di Ruth Berghaus.
Il direttore slovacco ha fatto suonare molto bene gli strumentisti del Comunale creando un suggestivo e soffice tappeto musicale, seppure molto trattenuto nelle dinamiche, fatto di sonorità belle, morbide, ma poco inclini a sottolineare gli affondi autenticamente drammatici e i picchi di acuta tensione: comunque una base ideale per i cantanti, anche se non tutti sono riusciti a giovarsene nel modo migliore.
Cast di specialisti avvezzi a Wagner, a cominciare dal protagonista, il tenore Stefan Vinke: un Tristano che privilegia la dimensione del perdente, caratterizzato però da un’emissione discontinua e da una linea di canto compromessa dai reiterati sbandamenti d’intonazione. Ann Petersen, da parte sua, ha gestito la recita con solido professionismo, anche se nella regione medio-grave (quella più sollecitata, nel personaggio di Isotta) la voce appare un po’ carente di volume e il Liebestod conclusivo richiederebbe altre doti interpretative. Del tutto a suo agio nelle vesti di Brangäne, invece, il mezzosoprano Ekaterina Gubanova che ha impresso al personaggio una notevole varietà di accenti, fino a quelli di più intensa complicità nel secondo atto, quando con il suo canto vigila sulla sicurezza dei due amanti: tra i più straordinari vertici emotivi del capolavoro wagneriano. È andato in crescendo nell’arco della serata il baritono Martin Gantner, un Kurwenal sempre più convincente man mano che la scrittura del personaggio diventa più lirica. Ormai passato a ruoli di basso, il grande Albert Dohmen – resta stupefacente l’emissione per omogeneità e compattezza ad ogni altitudine – ha disegnato un Re Marke dalla ricca gamma di sfumature: dai toni imperiosi del sovrano a quelli più magnanimi del perdono, passando per il dolente senso di solitudine di uomo che avverte i limiti dell’età di fronte all’evidenza dell’amore fra i due giovani. E si sono fatti apprezzare sia il tenore Klodjan Kaçani, tanto nel canto iniziale del marinaio quanto nei malinconici interventi del pastore dell’ultimo atto, sia il baritono Tommaso Caramia nei panni antagonistici di Melot.
Sotto un’apparenza algida e astratta, il concettuale spettacolo di Pleger nascondeva una grande complessità tecnologica – persino eccessiva, sono stati necessari vari camion per trasportare le scene – a fronte di una visione interpretativa che puntava solo su idee molto essenziali, metafore quasi elementari. Nel primo atto, il più debitore al teatro di Wilson sul piano visivo, la scena è occupata da gigantesche stalattiti che impediscono ai due giovani di congiungersi. Nel secondo, il più denso di emozioni, un grande albero antropomorfizzato: l’idea non è inedita, ma l’intreccio dei corpi che lentamente si sgelano rende in modo suggestivo l’intenso desiderio fisico dei due protagonisti, che finalmente può materializzarsi nelle tenebre notturne. Luce siderale nel terzo atto, ottenuta attraverso tubi retrattili che si allungano in orizzontale, quando Tristano pone fine alla sua agonia e Isotta affronta la morte alla luce del giorno: conclusione terrena di un amore che, del resto, poteva vivere solo al buio. Ma la trovata forse più efficace dello spettacolo è stata quella di non mostrare la coppa con il filtro d’amore: dimostrazione che la bevanda è soltanto un pretesto e la passione che avrebbe travolto i due protagonisti era già scritta nelle stelle.
Giulia Vannoni