Se domani fossero distrutti tutti i libri del mondo e della storia (la Bibbia, Topolino, la Divina Commedia, i Codici giuridici,ecc.…) ma ne potessi salvare solo uno, non avrei alcun dubbio: il Messale plenario, il libro liturgico della Messa contenente gran parte della Parola di Dio (Lezionario), con la musica e i canti liturgici (Graduale) (v. Catechesi, 48).
Se fossi però costretta a salvarne solo una parte, non avrei ancora alcun dubbio: la Liturgia eucaristica, in cui ha compimento la Liturgia della Parola (v. Catechesi, 46) e in cui Cristo “prese” il pane (Offertorio), “rese grazie” (Preghiera Eucaristica), lo “spezzò” e lo “diede” ai discepoli (Comunione).
Se questa parte fosse però troppo grande e potessi salvare solo una pagina, non avrei ancora alcun dubbio: la Preghiera Eucaristica, l’atto culminante e centrale della Messa, tanto da darle il nome (Eucaristia) (v. Catechesi, 60).
Ma se una pagina fosse ancora troppo grande e potessi salvare solo qualche parola, non avrei ancora alcun dubbio e salverei 4 verbi: «prese», «rese grazie», «spezzò» e «diede», i verbi del Racconto dell’ultima cena, il cuore e il vertice della Preghiera Eucaristica. Perché?
Perché questi sono i verbi, cioè le azioni, che salvano il mondo: dal male e dalla morte, i due grandi nemici invincibili all’uomo di ogni generazione. Per questo Chi li ha pronunciati e li ha messi in pratica, e Chi non è marcito nella tomba ed è ora fuori dal tempo, ma non dalla storia, ha comandato che fossero “fatti” per sempre: «Fate questo in memoria di me» (1Cor 11,24-25).
Lo dice a chiare lettere il Messale Romano: «Nell’ultima Cena Cristo istituì il sacrificio e convito pasquale per mezzo del quale è reso continuamente presente nella Chiesa il sacrificio della croce, allorché il sacerdote compie ciò che il Signore stesso fece e affidò ai discepoli, perché lo facessero in memoria di lui» (OGMR, 72.79b).
Il Racconto dell’ultima cena non è quindi solo un racconto, ma molto di più. È un memoriale, cioè “una memoria che fa” e che nel linguaggio biblico-ebraico si può spiegare semplicemente così: ciò che Cristo fece nell’ultima cena e sulla croce, lo fa anche oggi, qui e adesso all’altare. Oggi dona, offre il suo corpo e il suo sangue, ossia tutto Se stesso a te, a noi, per vincere il male e la morte che albergano in ciascuno. Il comando che ci ha lasciato non è: “ricordate” o “raccontate”, ma “fate!”.
Un comando di una potenza tale che non può essere ridotto alla Sua sola presenza reale nel pane e nel vino: la Consacrazione (racchiusa nel Racconto dell’ultima cena e che avviene alle parole: Prendete… questo è il mio Corpo/questo è il mio Sangue, OGMR 3) non è questione di rendere presente un assente, quasi fosse una seduta spiritica! È molto di più: è il Padre che dona il Figlio e il Figlio che dona se stesso a noi per amore del Padre, riducendo all’impotenza il male e la morte, come ben esprimono i testi liturgici del Racconto: «e alzando gli occhi al cielo a te Dio Padre suo onnipotente, rese grazie…»; «Egli, venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre santo, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine… in remissione dei peccati» (Preghiera eucaristica I e IV). È il dispiegarsi della potenza dell’Amore!
Un comando di una potenza tale che da atto liturgico è divenuto Parola di Dio nei racconti dell’ultima cena di Matteo (26,26-28), Marco (14,22-24), Luca (22,19-20) e Paolo (1Cor 11,23-25): proprio l’inverso di quello che comunemente si pensa! Infatti, queste pericopi bibliche derivano dalle preghiere eucaristiche e gli evangelisti non hanno fatto altro che trascrivere ciò che le loro comunità già “facevano” in obbedienza al comando di Gesù. Cosicché Matteo e Marco riflettono le celebrazioni della Chiesa di Gerusalemme, mentre Paolo e Luca quelle delle Chiese greche (Antiochia).
Concludo con due note: la prima per i celebranti, la seconda per i fedeli.
«In alcuni luoghi – lamenta il magistero della Chiesa – è invalso l’abuso per cui il sacerdote spezza l’ostia al momento della consacrazione. Tale abuso si compie però contro la tradizione della Chiesa e va riprovato e molto urgentemente corretto» (Redemptionis Sacramentum 55). Le origini di questo abuso sembrano risalire ad una interpretazione letterale e, seppur in buona fede, quasi teatrale delle parole consacratorie, imitando parole e gesti di Gesù (prese il pane, lo spezzò). Coerentemente, il sacerdote dovrebbe subito distribuire la comunione (lo diede ai suoi discepoli), cosa che non avviene. Si tenga allora presente che ciò che fece Gesù è racchiuso in tutta la Liturgia Eucaristica: dalla Presentazione dei doni (prese il pane) alla Comunione (lo diede ai suoi discepoli), come precisa l’OGMR, 72. Il significato della fractio panis, inoltre, non può essere pienamente compreso se non al termine della Preghiera Eucaristica, che vede il corpo del Signore risorto e asceso al Cielo.
Vengo ai fedeli. Ricordo che da bambina al catechismo, quando il parroco celebrava la messa, si faceva letteralmente “a botte” per impossessarsi del campanello da suonare prima della consacrazione e all’elevazione del pane e del calice (segno dell’offerta che Cristo fa di Sé). La sua funzione è quella di far alzare l’attenzione dei fedeli nell’atto più importante della Messa (OGMR, 150); uso che risale al XIII secolo, quando il sacerdote celebrava di spalle e a bassa voce. Certamente oggi non servirebbe più e in alcune chiese non si trova più neppure in sacrestia. Il trillo è comunque rimasto: non so perché, ma i cellulari riescono sempre a suonare proprio nel momento della consacrazione! Sembra di tornare al catechismo…
Elisabetta Casadei
* Le catechesi sono raccolte nel volume: E. Casadei, Tutto (o quasi) sulla Messa, Effatà 2014.