Al Teatro Regio di Parma il nuovo allestimento dell’opera Mahagonny di Kurt Weill con il dissacrante libretto di Bertolt Brecht
PARMA, 28 aprile 2022 – Una città surreale di un imprecisato Far West, dove è ben chiara una sola morale: con i soldi si può fare tutto e l’unica colpa è non averli. Per Bertolt Brecht l’immaginaria Mahagonny è il simbolo, da un lato, di una società senza regole, dove trionfano i vizi peggiori del capitalismo; dall’altro rappresenta l’utopia americana della libertà, associata a un’idea di ribellione che presenta assonanze soprattutto con il jazz. Aufsteigund Fall der Stadt Mahagonny era nata nel 1927, inizialmente come cantata scenica (Mahagonny Songspiel), trasformandosi tre anni dopo a Lipsia in un’opera in tre atti, che descrive la vita di un’ipotetica città dove tutto è consentito e ciascuno può coltivare ogni sorta di vizio: mangiare e bere smodatamente, menar le mani e abbandonarsi al sesso più sfrenato.
Sappiamo come finì. L’opera subì la totale condanna del nazismo (furono distrutte tutte le copie della partitura, mentre di lì a poco il compositore, l’ebreo Kurt Weill, fu costretto a riparare in America) e, nello stesso tempo, incontrò la disapprovazione dei marxisti ortodossi, tanto che non venne mai messa in scena nei paesi del “socialismo reale”. Per quanto riguarda l’Italia, poi, Ascesa e caduta della città di Mahagonny resta a tutt’oggi un titolo di rara esecuzione, nonostante la celeberrima canzone Oh, moon of Alabama.
A rendere più efficace lo straniamento teatrale – a dispetto delle divergenze ideologiche tra drammaturgo e compositore fossero ogni giorno più forti – contribuisce in modo determinante la musica del giovane Weill, che azzarda inediti accostamenti di generi: dal contrappunto più rigoroso (eredità di una solida formazione accademica) al jazz, dalla musica sacra allo swing. Ricorre poi a una timbrica strumentale del tutto inconsueta utilizzando sax, banjo, harmonium, bandoneon, mandolino e persino il pianoforte scordato, mentre sul piano vocale accosta una sorta di recitativo al canto più tradizionale: tutti accorgimenti che gli permettevano di parodiare l’opera seria (del resto Puccini, vent’anni prima, aveva ambientato in America la sua Fanciulla del West…).
Molto bello a vedersi, lo spettacolo di Henning Brockhaus che ha debuttato al Regio di Parma scorre benissimo e sottolinea il carattere epico grottesco del testo. Funzionali a questa lettura sono le scene di Margherita Palli, insieme ai costumi di Giancarlo Colis e alle luci di Pasquale Mari. La cornice visiva, spesso caricaturale, richiama la pittura americana di Edward Hopper – incarnazione del sogno di felicità capitalista – cui si sovrappongono echi visuali degli anni di Weimar e del cabaret berlinese, passato però attraverso il filtro del teatro di Strehler e del cinema di Bob Fosse. L’uso discreto e mai invasivo dei suggestivi filmati di Mario Spinaci, poi, proiettano l’opera in una dimensione più recente, che sembra strizzare l’occhio alle atmosfere evocate in seguito da Gershwin.
Agli interpreti è richiesta una notevole bravura, vocale e scenica. Nel cast del Regio ci sono state numerose sostituzioni, compresi alcuni ruoli principali, anche se l’impressione è stata comunque di un insieme ben rodato. Pur essendo subentrata all’ultimo minuto, Nadja Mchantaf ha dimostrato notevole confidenza con il personaggio di Jenny, grazie al sostegno di una notevole presenza scenica e a un’impeccabile sicurezza nel canto: doti che compensano mezzi vocali non troppo voluminosi. L’espressivo tenore Tobias Hächler disegna un accattivante Jimmy ed è protagonista di un intenso finale che fa dimenticare qualche cedimento in acuto. Dotata di voce importante, il mezzosoprano russo Alisa Kolosova interpreta una dispotica Leokadja, fondatrice della città, riuscendo a gestire con notevole ironia un fisico un po’ ingombrante. Tra i suoi due sodali, Fatty e Moses, si è distinto soprattutto il tenore Matthias Kozorowski, altra sostituzione (in luogo del preannunciato Chris Merritt, leggenda rossiniana), accanto al baritono Zoltan Nagy. Nel trio dei tagliaboschi amici di Jimmy emergeva il baritono Simon Schnorr, anche lui un sostituto: del suo personaggio, Bill, la regia fa intravedere risvolti inquietanti, mentre accarezza una bambola dalle dimensioni quasi umane. Accanto a tanti interpreti tedeschi, Filippo Lanzi è stato il narratore, cui spetta il compito di annunciare in italiano le scene. Senza dimenticare poi le sei ballerine che danzano seminude sulle coreografie di Valentina Escobar. Christopher Franklin ha diretto con rigore e precisione, preoccupandosi sempre di seguire con attenzione i cantanti: peccato solo che l’Orchestra Toscanini, pur ineccepibile, non apparisse abbastanza presente.
Giulia Vannoni