La chiamavano la società dei consumi. Ora che i consumi sono in crisi, la natura chiede il suo conto. Il secolo delle industrie ha abusato delle risorse naturali. Anni di esami di coscienza occidentali non sono bastati a invertire la rotta. Eppure il punto di non ritorno non è ancora stato superato. Di questo si è parlato a Napoli l’8-11 Ottobre scorso all’interno del Forum dell’Associazione Greenaccord dal titolo “Sfamare il mondo – alimentazione, agricoltura e ambiente” a cui abbiamo partecipato tra vertici di organizzazioni internazionali ed esperti mondiali di sviluppo sostenibile.
Il dio denaro. A un passo dall’Expo di Milano si fa sempre più stringente il tema del risparmio delle risorse per “Nutrire il pianeta”; non solo come modello etico, ma anche economico, per l’uscita dalla recessione. L’attuale catena del cibo è inefficiente; schiava del mercato e della logica del consumo imperante, porta con sé effetti collaterali quali il consumo di suolo nelle nazioni più povere. L’Africa da sola conta il 55% di tutte le “grabbed land” – terre sottratte – del mondo. “Educarsi alla solidarietà e vincere la schiavitù del profitto” è ciò che suggerisce Papa Francesco.
Si parte dalle famiglie. Ogni anno un nucleo medio di 4 persone getta nel cestino 500 euro di cibo. Una media pro-capite di 115 chilogrammi all’anno in Europa e USA contro gli 11 dell’Africa. “Il cibo rimasto sul tavolo, dopo mezz’ora viene percepito come rifiuto”, denuncia Raffaele del Giudice, presidente ASIA Napoli. Complice la moda delle “confezioni maxi” o del “prendi due paghi uno”, si fanno acquisti superiori alle proprie necessità: “Sono trovate commerciali rovinose”. Cosa fare in casa? Non riempire il frigorifero all’inverosimile (i prodotti nascosti finiscono per scadere), organizzare i cassetti con etichette. Non occorrono rivoluzioni dolorose. Basta una “responsabilità dolce”.
Un miliardo e 300 mila le tonnellate di cibo sprecate ogni anno nel mondo, eppure continuano ad esserci 2 miliardi di malnutriti. E pensare che “non è in questione la disponibilità di cibo – sostiene Adriana Opromolla di Caritas International – ma il suo accesso. La lotta contro la fame deve fornire a tutti i mezzi per produrre alimenti: terra, semi, strumenti agricoli, bestiame, scuole, protezione sociale e sanitaria”. Obiettivo Caritas 2025: eliminare la fame nel mondo. Utopia? “Forse. Ma senza ambizioni non c’è determinazione”. Ogni famiglia deve attuare scelte alimentari quotidiane ponderate e consumare quantità moderate assicurandosi una dieta equilibrata. Dal 1946 a oggi la produzione di cibo è triplicata – ha detto, a Napoli Ren Wang, Assistente Direttore Generale della FAO. “Le Nazioni Unite sono preoccupate della sicurezza alimentare in generale; l’obesità è un problema grave”. Nel 2050 il pianeta sarà popolata da 9,15 miliardi di persone e la domanda di terra e acqua aumenterà del 60% con conseguenti aumenti di CO2 emessa. Industria e agricoltura competono nella rincorsa all’acqua potabile. I fertilizzanti si diffondono, con il loro carico di fosforo, mettendo a rischio la biodiversità. “Bisogna migliorare la qualità delle coltivazioni, non la loro estensione. – sostiene la FAO – >Basta foreste sacrificate. Serve una trasformazione sostenibile dell’agricoltura”. Come? “Sostenendo le piccole attività agricole a conduzione familiare: sono le più produttive e rappresentano l’80% di tutte le aziende agricole. Eppure troppo sottovalutate nei paesi sviluppati”. Non è tutto nero. Dai primi anni 90 ad oggi coloro che soffrono la fame sono diminuiti, da 1 miliardo a 800 milioni. Segno che, con le giuste politiche, tutto è possibile.
Mangiamo troppa carne. Le classi medio-alte del mondo sono in aumento. I prodotti zootecnici e caseari saranno sempre più richiesti, come ha ricordato al consesso partenopeo l’americano Worldwatch Institute. Preoccupa anche la crescente domanda di biocarburante: prodotto agricolo non destinato all’alimentazione “che avrà ripercussioni sull’aumento del costo di cibo”. Ogni italiano mangia mezzo chilo di carne a settimana (7 milioni sono vegetariani) – denuncia Slow Food -, quando per la salute ne basterebbe la metà. “Occorre ripensare l’allevamento: produzione di foraggi, viaggi verso il macello e approvvigionamento idrico. Troppi sprechi!”. La risposta? Agricoltura a chilometro zero, che non produce più del necessario, distribuisce nelle vicinanza ed evita lo spreco degli imballaggi. “I nostri antenati avevano ben chiaro il rapporto tra condotte umane e risorse naturali. – prosegue la rappresentante Cinzia Scaffidi – Noi siamo come degli analfabeti di ritorno nel rapporto col cibo. Ma non bisogna avere l’ansia della rivoluzione. È tutta questione di allenamento”.
Qualcosa si muove. Alcune multinazionali hanno scoperto che fare scelte eco-sostenibili conviene. Anche a loro. “Il loro potere è immenso – denuncia FoodWise.com.au – basti pensare che l’industria alimentare mondiale è dominata da solo 4 fornitori (250 miliardi di dollari il loro fatturato globale nel 2010)”. Le multinazionali contrattano direttamente con gli agricoltori dei paesi poveri e ne traggono vantaggi. Ma c’è chi sta battendo la via dell’efficientamento. Il gruppo Marks&Spancer ha da poco avviato il più grande progetto di sostenibilità al mondo nella catena del cibo riducendo di un terzo il consumo di carburante (studiando itinerari delle spedizioni più brevi, istruendo gli autisti a guidare in maniere più efficiente), riciclando i rifiuti dei loro market e passando alla refrigerazione naturale. Quasi mezzo miliardo di sterline risparmiate dal 2007. Il risvolto più positivo qual è? Che gli altri gruppi seguono a ruota, attratti dall’idea di poter accumulare maggiore ricchezza da reinvestire. Seppur non primariamente per affezione all’ambiente, ma per più atavica attrazione verso gli introiti, qualcosa sta cambiando.
Mirco Paganelli