LA VICENDA. Nel suo nuovo libro, lo scrittore riccionese Fosco Rocchetta raccoglie numerose storie legate alla Perla Verde. Tra queste, l’incidente avvenuto nel Settecento in un’area paludosa vicino al Rio Melo
L’ultima fatica letteraria di Fosco Rocchetta, lo scrittore riccionese già autore di numerosi libri dedicati alla storia del territorio, è legata proprio alla Perla Verde e, in particolare, rientra nelle tante iniziative che celebrano il centenario della sua autonomia comunale. Il nuovo libro (La Piazza Editore), dal titolo Riccione, la mia città. Raccolta di scritti vari II (2015-2022), raccoglie una ventina di scritti su Riccione e il suo territorio, a partire dal ’700 fino ai giorni nostri. “ In occasione del centenario del Comune di Riccione – spiega l’autore nella prefazione – alcuni articoli sono dedicati a quella ‘storica’ battaglia, risalente ai primi anni del ’900: una giusta rivendicazione che registrò, nel 1910, la prima domanda formale per ottenere quell’autonomia, che Riccione acquisirà il 19 ottobre 1922”.
Tra le tante vicende raccontate nel volume, ci sono anche gli episodi legati alla marineria riccionese e, in particolare, ad alcuni dei naufragi che, seppur per motivi drammatici, hanno fatto la storia di una città che da sempre ha nel mare la propria anima e la propria identità. Attraverso due saggi il volume racconta, infatti, gli episodi più noti di naufragi in Adriatico: quello del gennaio 1779, alle “Fontanelle” (Naufragio della nave olandese Caval Marino) e, soprattutto, quello avvenuto nel gennaio 1929, il naufragio del motopeschereccio Bruna, la tragedia più nota della marineria riccionese del ’900.
Incidente al largo della costa riminese in cui persero la vita cinque marinai, ricordati ancora oggi attraverso una lapide commemorativa posta al Porto di Riccione.
Questi, però, non furono gli unici naufragi registrati nelle nostre acque. Tra i meno noti, c’è quello che avvenne nel 1745 nelle acque al largo del cosiddetto “Pantano”, nome che in quell’epoca si riferiva a un’area paludosa situata nei pressi del Rio Melo. Un incidente (che risale a un tempo in cui Riccione era poco più che “neonata”, nient’altro che una piccola borgata) da cui si salvò solamente un membro dell’equipaggio, anche grazie al prezioso aiuto fornito da alcuni membri della comunità legata ai monaci Agostiniani. Una storia, riportata anch’essa nel libro di Fosco Rocchetta, che nasce da un dramma, ma che diventa anche testimonianza di carità e solidarietà. La riportiamo di seguito.
1745, naufragio al ‘Pantano’. Atto di carità dei monaci Agostiniani
“Se si esaminano gli atti della Congregazione di Sanità di Rimini, l’ente preposto alla tutela della salute pubblica nel nostro territorio, facente parte dello Stato della Chiesa nel Settecento, numerosi documenti trattano di naufragi in Adriatico, alcuni dei quali consumatisi anche sul litorale riccionese. Un affondamento d’una barca avvenne nel dicembre 1745, al largo del ‘Pantano’, toponimo attestante un’area impaludata prospiciente il rio Melo. In vero, gli straripamenti di tale rio erano molto frequenti nei secoli scorsi, vigendo un regime idrico parecchio diverso da quello dei nostri tempi, con fiumi e torrenti contraddistinti da una maggiore portata e persistenza d’acque. A Riccione, il ‘Pantano’, (Catasto Calindri 1774-1787), era una zona compresa tra la Flaminia, ad ovest, il rio Melo a nord, il mare ad est e le ‘Casette’, primo agglomerato di case sorto lungo la strada consolare romana (attuale corso Fratelli Cervi) che, verso la fine del ’600 e l’inizio del ’700, diede vita alla borgata di Riccione. Il citato manoscritto così recita: «Al nome di Dio amen, adì 17 dicembre 1745. Si ha dal suddetto illustrissimo signor dottor Pietro Bandini esposto che ricevutasi ieri al tardi la notizia della barca naufragata per la burrasca di mare in vicinanza della spiaggia d’Ariccione, sia creduto di doversi prendere le necessarie precauzioni nell’incertezza ancora della presenza di una barca, di sei uomini e carico, cioè ordinare che fossero, con la possibile diligenza raccolte tutte le mercanzie che si seppe erano in spiaggia, quali consistevano in carne di pecora salate, barili di fichi secchi e pelli pecorine, quali cose nonostante che si conoscesse che erano state abbastanza spurgate nell’acqua salata, sia nulla di meno a parte che sia il capanno di legno antica residenza della Sanità situato alla bocca del nostro porto.
Inoltre essendosi avuta notizia che furono venuti alla spiaggia due cadaveri dei marinai di detta barca naufragata, sia ordinata la visita dei medesimi. Successivamente essendosi inteso che un uomo di detta barca salvato da detta burrasca, era stato asportato sopra un birroccio per atto di carità da contadini e lavoratori dei padri di Sant’Agostino al Pantano nella loro casa». Il marinaio rinvenuto semivivo risultò essere il paron Giovanni Cavallotti di Rovigno, mentre la nave proveniva da Pirano con carico di grano, fagioli, sementi di lino, fichi, carni salate, pelli pecorine”.
La chiesa che “sostituì” San Martino
“La chiesa di Santa Maria in Pantano, com’è certificato dal citato catasto, era annessa ad un eremitaggio dell’ospizio appartenente ai monaci Agostiniani, che possedevano quelle terre almeno dal 1280. Era ubicata nel fondo Pantano, area sulla quale si erge ancora la ex Fornace Piva di viale Massaua. «Sorse probabilmente sui resti, o sfruttando materiali di una villa rustica di età romana. Sono visibili scarsi ruderi affioranti dal terrenopresso il viale Morgagni» (Cfr.Ghirotti, Luigi, Appunti sulla preistoria e storia di Riccione, Biblioteca comunale, 1977).
Questa chiesetta, per due anni sostituì quella di San Martino, guidata invece dai monaci Olivetani, posta sul colle ‘Ca’ Cavret dl’Arvura’, distrutta dal terremoto del 1786, per essere ricostruita ed inaugurata nel 1788 sulla Flaminia, a Riccione Paese. Nel lascito Almieri del 9 febbraio 1792, conservato nell’archivio parrocchiale di San Martino, il sacerdote don Luigi Bugli la ricorda così: «Dove li medesimi parrocchiani vanno alla meglio che possono ascoltarla [la predica quaresimale] in una chiesa detta del Pantano posta nel distretto della loro parrocchia quanto angusta, altrettanto sproporzionata per contenervi tutta la popolazione non potendo in essa capire appena una terza parte dello stesso Popolo dovendone rimanere la maggior parte fuori di Chiesa con iscandalo non indifferente, perché fuori di Chiesa la si passa tra boccali e bicchieri in istravizi ed amoreggiamenti».
Parole indicanti che mentre vigeva, anche presso la nostra comunità, il potere temporale della Chiesa, molti solevano assistere alle messe in modo formale ed esteriore, per ragioni di convenienza sociale e politica, ‘nihil sub sole novum’, contegno lontano da quell’intima spiritualità che, com’è ribadito oggi da Papa Francesco, dovrebbe essere il motivo di ogni approccio sincero ai riti religiosi, per i Fedeli veri ed autentici”.
a cura di Simone Santini