Arte. Un dipinto per festeggiare il 25 dicembre: la Natività delle Grazie di Rimini
Un famoso olio su tela con al centro Cristo infante Giovanardi: “È una scena anche idealizzante e simbolica”
Di tutte le Natività pittoriche presenti sul territorio riminese, quella che continua a destare il mio stupore e la mia commozione è la celeberrima tela di Giovanni Laurentini Arrigoni (circa 1550-1633), custodita nell’antica chiesa conventuale di Santa Maria delle Grazie, fino a poco tempo fa officiata dagli Osservanti francescani. Il tempio minorita, fu costuito alla fine del XIV secolo sul colle di Covignano, chiamato anche “Paradiso”, e quindi “Eden” biblico, in senso stretto, e “giardino”, in senso lato: eletto da secoli immemorabili per il culto e la preghiera, è un luogo intessuto di memorie archeologiche, architettoniche e artistiche sacre, antiche e cristiane; locus amoenus dove hanno messo radici, tra gli altri, i Francescani, i Gerolomini e i Benedettini di Monte Oliveto, costruendo i loro chiostri di pace, sapienza e silenzio.
Sono inoltre trascorsi ben otto secoli dalle stigmate di Francesco d’Assisi, ricevute sul romitorio della Verna nel settembre del 1224: è dunque insieme doveroso e giusto poter ricordare il Natale, omaggiando il fondatore di una delle più sconvolgenti rivoluzioni spirituali nel seno dell’Occidente a cui si deve anche l’invenzione del presepe popolare. Al contempo, nell’anno in cui Urbino ha celebrato un impeccabile maestro dell’arte sacra quale fu Federico Barocci (1535-1612), ricordare l’Arrigoni, suo collega e, per certi versi epigono, è un omaggio indiretto anche all’arte del sommo urbinate.
L’olio su tela delle Grazie (Giovanni Laurentini Arrigoni, ca. 1550-1633, Natività, 1606 ca., olio su tela, Covignano di Rimini, Chiesa di Santa Maria delle Grazie, foto Gilberto Urbinati, Archivio Fotografi co Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini), pende da una parete della navata destra dell’edificio di culto, ricostruita dopo i bombardamenti del 1944: in questo ambiente spoglio e raggelante, in contrasto con la navata di sinistra ancora ricca di fascinose testimonianze di fede e arte, il magnifico dipinto si perde, quasi si fa piccolo, ma, alzando lo sguardo e fermandosi in un’attenta contemplazione si rivela come un raro gioiello di arte e devozione, in cui il linguaggio diretto, fine e popolare insieme, è capace di sintetizzare le più audaci metafore mistiche e liturgiche. L’opera era stata donata probabilmente nel 1606 dalla contessa Giulia Albicini Bandi, per la cappella maggiore della navata destra, ed evoca ancora lo splendore irrimediabilmente perduto di quel luogo di culto.
Il centro del dipinto è ovviamente il Cristo infante, la cui carne “teandrica”, cioè divina e umana allo stesso tempo, emette raggi abbaglianti nella notte del Natale, notte oscura, proveniente dal solstizio d’Inverno, fino a costringere la Madre di Dio e san Giuseppe a socchiudere lo sguardo abbacinato.
Egli è, infatti, «la Luce del mondo» ( Gv 8, 12), che «splende nelle tenebre» ( Gv 1, 5).
Non solo: il suo fulgore arriva ad illuminare anche il cielo nuvoloso, che si rivela come una densa coltre, sostenuta da miriadi di Angeli, ossia come un velo che protegge il mistero del Sole divino sepolto nella notte più fonda, così come il Verbo, il Logos che è al principio di tutto si è circoscritto nel corpo di un bimbo. È nella mistica cristiana antica, soprattutto negli scritti attribuiti a san Dionigi l’Areopagita, che va individuata questa visione in tenebris, questa nebbia fosforescente, luminosa caligo, che ispira le riflessioni dei grandi teologi francescani come san Bonaventura da Bagnoregio, maestro d’orazione in cui si uniscono immagini che suscitano visioni e silenziose contemplazioni.
Il velo si squarcia solo all’orizzonte, in lontananza, quando un angelo messaggero si rivolge ai pastori annunciando la nascita del Salvatore ( Lc 2, 8-20): come vuole il profeta Isaia, sono il simbolo di tutto Israele, del popolo che camminava nelle tenebre e che ora ha visto una grande Luce ( Is 9, 1). Gli umili e fedeli pastori si raccolgono intorno al Bambino sfolgorante offerto ai loro sguardi nudo e deposto su candidi panni, simili ai paramenti dell’altare della Messa; ogni personaggio è abbigliato secondo il costume dei secoli XVI-XVII ed è ritratto in gesti inizialmente realistici e poi cristallizzati nelle forme del presepe tradizionale: si veda, ad esempio, la donna che porta sulla testa un cesto con il pollame.
L’Arrigoni, sospeso tra il Manierismo visionario e la sincerità verista della Controriforma, sembra innestare qualche elemento del moderno naturalismo caravaggesco, con la sua mistica penitenziale fatta di contrasti di luce e tenebre, nella bella maniera devota che egli ha visto, nella forma più alta, nell’opera di Barocci. La scena, tuttavia, non è solo storica e narrativa ma idealizzante e simbolica: assieme ai pastori si assiepano intorno alla Sacra Famiglia tre santi della Tradizione: Bernardino da Siena, il santo francescano che con lo sguardo ci invita all’adorazione di quel Cristo che egli ha coltivato nella meditazione del Nome santo, “IHS”, il suo “maestro” san Francesco d’Assisi, immerso in una contemplazione che sembra già un fondersi misticamente con l’oggetto amato, e san Girolamo, accompagnato dal leone mansueto.
Egli, traduttore dei testi ebraici e greci delle Scritture in latino, la “ Vulgata”, ha lasciato ai piedi della culla un cartiglio, mentre san Francesco una croce, a indicare che quel bimbo luminoso è sia la Parola di Dio sia l’Agnello destinato al sacrificio, e così, dunque, l’ostia santa, pura e immacolata, che il sacerdote contemplava un tempo mentre era intento a celebrare l’eucarestia davanti a questa pittura. Come sempre il mistero iniziale/iniziatico del Natale, racchiude nel suo stupore fiabesco, gli elementi che rammentano il passaggio, tragico e glorioso, della Pasqua: della morte e della resurrezione che ha sconfi tto, con la propria luce, quella morte apparentemente irrevocabile. Francesco, inventore del presepe, medita con tenerezza, nel Bambino che schiude le braccia, la sorgente del suo destino di alter Christus, segnato, nell’anima, prima ancora che nel corpo, dalle piaghe della crocifissione.
Alessandro Giovanardi